Guido Fink, recentemente scomparso all’età di 84 anni, è stato uno dei più grandi critici letterari che abbiamo avuto in Italia. I suoi interessi spaziavano dalla Letteratura Americana – e in particolare la letteratura ebraico-americana – al cinema, al teatro, alle arti visive, alla teoria della critica, ai nuovi sviluppi della riflessione filosofica. Nato a Gorizia da una famiglia di origine ebraica, si trasferì in tenera età a Ferrara. Da bambino, durante l’occupazione nazista, fu salvato dalla madre che lo nascose in una vecchia fabbrica e sfuggì per un soffio al campo di concentramento. Guido Fink rimase fortemente legato per tutta la vita alle sue radici, a questo senso di precarietà dell’esistenza e a questa grande capacità autoironica che hanno gli ebrei di sorridere e di scherzare sulle loro disgrazie. Con il suo sguardo svagato, sempre assorto nelle sue riflessioni letterarie e nelle sue innumerevoli reminiscenze cinematografiche, ricordava il personaggio di Ariel ne La Tempesta di Shakespeare, esile e leggero come l’aria. Ci mancherà la sua leggerezza nell’affrontare anche i temi più scabrosi, quali l’Olocausto, l’antisemitismo e i vari massacri cui abbiamo assistito nel ‘900.
Chi come il sottoscritto ha avuto il privilegio di seguire i corsi di Letteratura Americana tenuti da Fink all’Università di Bologna, non potrà mai dimenticare le sue straordinarie lezioni, tenute da un critico letterario che dimostrava ad ogni frase che diceva di possedere una cultura straordinaria, una persona che aveva letto tutti i testi e tutta la critica sui testi. Le sue lezioni ti trasmettevano un grande amore per la Letteratura e una grande voglia di leggere quei libri e quegli autori che Fink amava in modo viscerale, spaziando da Nathaniel Hawthorne a Bernard Malamud, in particolare le straordinarie raccolte di racconti di Malamud The Magic Barrel (Il barile magico ) e Pictures of Fidelman. Impossibile dimenticare la sue straordinarie lezioni sul melodramma nella Letteratura Americana, che prendevano le mosse da L’immaginazione melodrammatica di Peter Brooks e da una analisi critica del tutto originale di The Blithedale Romance di Hawthorne. Durante uno di questi suoi corsi negli anni ’80, che partiva appunto dall’analisi della componente melodrammatica presente nelle opere di alcuni autori americani, Fink, da grande cinefilo qual era, fece vedere a noi studenti alcuni celebri film americani degli anni ‘40 e ‘50, compresi alcuni dei capolavori del cinema “melodrammatico” americano come Mildred Pierce di Michael Curtiz, con Joan Crawford, oppure i film noir di Billy Wilder, come La Fiamma del Peccato (Double Indemnity), o Duello al Sole (Duel in the Sun) di King Vidor, con Jennifer Jones e Joseph Cotten. Ricordo quelle “melodrammatiche” proiezioni pomeridiane che facevano parte integrante del corso, a conclusione delle quali buona parte del pubblico usciva emozionato e quasi in lacrime. Lo stesso Fink non si stancava mai di rivedere quei capolavori e non mancava mai di commuoversi ogni volta – l’ennesima – che rivedeva lo spettacolare duello finale che concludeva il drammone di Duello al Sole, quando i due protagonisti si affrontano in un ultimo, spietato duello. A quel punto erano in molti a cedere alle lacrime e ad abbandonarsi alla commozione. Lo stesso dicasi per il personaggio di Zenobia in The Blithedale Romance, una donna che Fink ci descriveva come misteriosa, affascinante e sfuggente allo stesso tempo, come si addice all’eroina di un melodramma, segnata dal peccato come molti dei personaggi femminili di Hawthorne. Alla fine della lezione, ognuno di noi rimaneva completamente assorbito in quel mondo fantastico che Fink ci aveva dispiegato davanti, e ognuno di noi cercava, scrutando tra i volti delle numerose studentesse del corso, di intravedere lo sguardo di Zenobia, di Priscilla, o addirittura della Dama Velata.
Le lezioni di Fink si svolgevano in questo modo: c’era questo omino un po’ strano, un po’ buffo, con la voce a volte un po’ stridula, a volte un po’ roca, che si posizionava in piedi davanti alla enorme cattedra dell’aula universitaria, aspettava che gli studenti si mettessero comodi e poi dopo qualche istante si appoggiava alla cattedra stessa incrociando le gambe infagottate in dei pantaloni di velluto color marrone o verde scuro decisamente troppo larghi – che ricordavano i personaggi di Charlie Chaplin – e cominciava a fissare l’angolo più lontano dell’aula, lassù sul soffitto. Poi questo strano e bizzarro personaggio cominciava a parlare, sempre continuando a fissare quel punto lontano sul soffitto, e il suo eloquio ti prendeva e ti trascinava per più di un’ora e mezza. Altri studenti privilegiati ricordano un suo intervento straordinario sul Sublime in Moby Dick, in occasione dell’ormai leggendario “Convegno sul Sublime” tenutosi nel 1984, oppure la straordinaria lezione-conferenza che il grandissimo Leslie Fiedler, invitato dallo stesso Fink, tenne su Mark Twain.
Anni dopo avremmo scoperto un altro aspetto della critica letteraria ebraico-americana, l’aspetto profetico e antagonistico di Harold Bloom, che fece una delle sue prime apparizioni a Bologna proprio in occasione di quel famoso “Convegno sul Sublime”, e ritornò poi diverse altre volte. Ci accorgemmo che anche Bloom, durante le sue lezioni – in occasione di uno straordinario seminario sul Paradise Lost di Milton – parlava guardando il soffitto comodamente seduto su di una poltrona, ma in quel caso il personaggio era di ben altra stazza rispetto all’esile e leggero Fink, – lui stesso si definiva una sorta di Falstaff ebreo, o una reincarnazione dell’attore comico Zero Mostel – e il suo guardare in alto aveva un significato diverso rispetto a quello di Fink: stava a significare che il suo non era un semplice discorso critico, ma il Dhavar, la Parola. La sua critica antagonistica era l’ennesimo episodio nella millenaria vertenza degli ebrei con il loro Dio e dimostrava ancora una volta il loro disperato attaccamento alla Parola, al Testo della Torah, al Testo in generale.
A differenza di Fink, attento a tutte le sfumature del testo, Bloom non aveva mezze misure: ti faceva toccare con mano la Darkness Visible del Paradise Lost, ti faceva toccare la grandezza di Milton e del suo personaggio più grande, Satana. L’unico suo difetto, amava ripetere, era che non era ebreo. E lo stesso si poteva dire di Shakespeare. Pensate che capolavori grandissimi sarebbero stati il Paradise Lost o l’Hamlet se fossero stati scritti da un ebreo.
Da questa dialettica tra l’ebraismo raffinato e tormentato di Fink e l’ebraismo assertivo e agonistico di Bloom è nato un interessantissimo dibattito sulle prospettive della critica letteraria e della teoria critica, e sono nati alcuni dei testi più interessanti pubblicati negli anni ’80 a Bologna dalla rivista “Parol” o dalla rivista “Studi di Estetica”, per non parlare del numero speciale di “In Forma di Parole” dedicato alla critica antagonistica. In molti di questi convegni, Fink non mancava mai di intervenire e di allargare la nostra visuale sulla critica, citando spesso autori meno frequentati come Roger Caillois o Maurice Blanchot, come a voler controbilanciare la “svolta linguistica” dei post-strutturalisti, che all’epoca spadroneggiavano negli ambienti accademici bolognesi.
Ecco perché tutti noi che abbiamo potuto ascoltare Fink, che abbiamo letto Fink e riflettuto sugli elementi da lui individuati nelle opere letterarie americane, non abbiamo mai smesso di occuparci di Letteratura e di Critica Letteraria. Grazie a Fink noi abbiamo avuto accesso ad una sensibilità critica raffinata che è merce rarissima tra i Professori di Letteratura odierni, più simili ormai a dei burocrati intenti a redigere asettici Piani di Studio in cui la Letteratura di anno in anno perde di importanza, intenti a celebrare e a ripetere sempre le stesse formule, irraggiungibili nei loro squallidi uffici, più che a dei veri critici letterari.
Nulla di tutto questo nell’atteggiamento di Guido Fink. Non aveva la tipica spocchia del professore universitario, inavvicinabile dai semplici mortali. Dopo le sue conferenze e i vari convegni, capitava spesso che ci si ritrovasse tutti a cena o a prendere un aperitivo, il che ti dava l’occasione di approfondire alcuni degli argomenti trattati. La porta del suo Studio era sempre aperta, e lui era sempre disponibile al dialogo, si confrontava sempre con tutti i suoi studenti ed era sempre pronto ad assimilare le idee, gli spunti e i suggerimenti che potevano venir fuori dalle varie conversazioni, anche le più banali. Anche quando fu nominato all’Istituto di Cultura di Los Angeles, un incarico prestigioso e molto ambito, con tanto di Segretaria personale e stipendio “da urlo” (parole sue), ricevette sempre i numerosi ex studenti che si recavano in California a svolgere le loro ricerche, con la consueta disponibilità, sempre prodigo di consigli e di suggerimenti.
Ci mancherà la sua leggerezza.
Guido Fink – Bibliografia (incompleta e assolutamente personale)
- 1971 – Orizzonti di gloria: un film di Stanley Kubrick, Radar, Padova.
- 1976 – Quasi come: letteratura come parodia, parodia come letteratura (con Guido Almansi), Rizzoli, Milano (n.e. 1991).
- 1977 – Ernst Lubitsch, Il Castoro (La Nuova Italia), Firenze (n.e. 1995, 2008).
- 1977 – Cinema e teatro: verso una totalità dello spettacolo e una partecipazione critica del pubblico (con Antonio Miccolo, a cura di), Guaraldi, Firenze.
- 1978 – I testimoni dell’immaginario: tecniche narrative dell’Ottocento americano, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma.
- 1982 – I film di Robert Altman, Gremese, Roma.
- 1982 – William Wyler, Il Castoro (La Nuova Italia), Firenze.
- 1986 – The Celebrated Art of US Short-Story Writing (con Gianni Celati), Mucchi, Modena.
- 1988 – Il recupero del testo. Aspetti della letteratura ebraico-americana (con Gabriella Morisco, a cura di), Clueb, Bologna. Contiene: Guido Fink, “Al di qua della ‘parola’: l’ebreo fra Henry James e Mark Twain”, pp. 29–50.
- 1989 – L’avventura. Michelangelo Antonioni, director (with Seymour Chatman, eds), Rutgers University Press, New Brunswick, N.J.
- 1990 – R. L. Stevenson: Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, Lindau, Torino.
- 1990 – Memoria e tradizione nella cultura ebraico-americana (con Gabriella Morisco, a cura di), Clueb, Bologna. Contiene: Guido Fink, “Postfazione: La fortezza di Yabneh e le tentazioni dell’oblio”, pp. 387–402.
- 1991 – Storia della letteratura americana (con Mario Maffi, Franco Minganti, Bianca Tarozzi), Sansoni, Firenze; n.e. Milano: Rizzoli, 1994, 2001, 2003, come Storia della letteratura americana dai canti dei pellerossa a Philip Roth.
- 1991 – “Il cinema inglese e la folla solitaria”, in Emanuela Martini (a cura di), Free Cinema e dintorni. Nuovo cinema inglese 1956-1968, EDT, Torino, pp. 117–139.
- 1994 – John Cassavetes: più vero del vero (con Roberta Andreucci e Luca Mazzei, a cura di), Firenze: Festival dei Popoli, pp. 81.
- 2001 – Non solo Woody Allen: la tradizione ebraica nel cinema americano, Venezia: Marsilio, pp. 299. Premiato a “L’Efebo d’oro” ad Agrigento.
- 2003 – Le seduzioni della scena: il teatro nel romanzo fra Otto e Novecento (con Maurizio Ascari, Alessandra Calanchi, Ornella De Zordo), Firenze: Le Lettere, pp. 208. “In principio era Fielding” e “Una doppia condanna”, pp. 7–46.
- 2015 – Nel segno di Proteo. Da Shakespeare a Bassani (a cura di Roberto Barbolini), Guaraldi, Rimini, pp. 414.2.2