Remo Pagnanelli attraversa ancora la poesia italiana, a trent’anni dalla morte per suicidio. E lo farà a lungo, perché i suoi versi quasi sempre testamentari ci parlano del disamore, dei rimorsi, della frattura continua tra vita e risorsa poetica. La prima tenuta stretta, fino a che si è potuto, nelle sue allegorie, la seconda cercata e ritrovata negli schemi leopardiani, e nella critica energica (talvolta rabbiosa) di Fortini. Tra questi due poli, l’esistenza di Pagnanelli è consegnata interamente, negli studi critici soprattutto, e nella poesia tanto necessaria quando più si staccava dalla funzione intellettuale per seguire bagliori e oscurità.
A Macerata e oltre i poeti lo conoscevano, dentro e fuori quelle Marche che tanto hanno dato alla poesia e al suo intervento sulla realtà. La rivista Verso (fondata con Guido Garufi) ne è testimonianza e guida. Dal 1987 a oggi si trovano molte pubblicazioni intorno allo scrittore, e non sono mancate edizioni postume o riassuntive dell’opera. Quasi un consuntivo (dal titolo della poesia che chiudeva Dopo, primo libro dato alle stampe da Remo, per Forum/Quinta generazione, 1981) è il titolo del nuovo volume contenente una scelta della produzione in versi da Epigrammi dell’inconsistenza a Preparativi per la villeggiatura. Una raccolta che attesta la sua “compattezza”, come segnala la curatrice Daniela Marcheschi, anche se non comprende alcune prove da ritenersi necessarie. La stessa Marcheschi curò nel 2001 per Il lavoro editoriale di Ancona un’edizione completa dei versi, ma il volume ormai risulta fuori catalogo.
Sarà utile osservare la reazione delle ultime generazioni alla prova di questa lettura, quando la domanda del cosa vuol dire oggi essere poeti, qui dominante in ogni pagina, viene tralasciata o considerata ininfluente nel regno fangoso della rete. Pagnanelli fu prima di tutto ricercatore e critico, ma assistere allo spiegamento temporale dei suoi versi evoca subito un’agitazione concreta, fisica, rivolta al viaggio, all’avvicendarsi dei giorni. Il poeta osserva, spesso con ironia, il proprio lavoro, e le intenzioni, considerando l’inevitabilità del sentire dentro il terreno scheggiato del vivere.
Certo ogni situazione, di luce e ombra, viene scandagliata, seguendo le stagioni meteorologiche e le stagioni vitali mai scevre di fatica e “male di vivere”. Mettere ordine fra le carte, per Remo, doveva essere come trascinare un macigno, e non sappiamo quanto la lezione dei maestri (Sereni, Caproni, Zanzotto, Bertolucci, Neri) gli recasse conforto, o almeno un leggero spianamento della strada. È subito chiaro come il paesaggio alternato fra invernale ed estivo segua da vicino la natura della sua energia poetica e prima ancora l’analisi del proprio stato. Un confronto continuo fra poesia sorgente e difficoltà esercitate dal mondo.
La vicenda è ben visibile lungo le pagine di Quasi un consuntivo, trascorrendo lentamente dalla verifica intorno a sé alla verifica profonda e micidiale del sé. Non è esperienza per Titani tascabili questa, o per i cultori dell’amnesia del rigore. L’attenzione su Pagnanelli esige mente ferma, e capacità di seguire trasversalmente la poesia degli ultimi decenni del ‘900. Perché proprio in quel dominio si consuma l’intera vita intellettuale del poeta. Nel colmo dei rapporti con gli atti di coraggio riguardanti la scrittura di quegli anni, per molti aspetti irripetibili, dove potevano esistere esperienze diversissime fra loro ma tutte ugualmente osservate con rara profondità. Remo purtroppo visse soltanto trentadue anni. Minacciato dal silenzio, ma per un breve arco di tempo carico di risoluto orgoglio poetico.