Una città-stato costruita su un’isola artificiale in mezzo all’Artico, è l’ultima meta per le migliaia di esodati sans papiers in fuga dal collasso ambientale. A Qaanaaq, una tecno-struttura concepita come un incubo architettonico per i più, occuperanno gli ultimi luridi gradini rimasti liberi nella scivolosa piramide sociale, tirando a campare al servizio di gang, galoppini e politici variamente corrotti. Dietro alle interfacce deep learning, scartando gli strati di AI e di prestanome che avvolgono la città come in un bulbo di cipolla, scopriamo che a governare è ancora la vecchia élite proprietaria, scampata per un soffio alla Guerra civile americana. Un giorno a Qaanaaq arriva una matura guerriera neo Inuit a cavallo di un’orca marina e in compagnia di un orso polare. L’orcamante – così ribattezzata dal buzz cittadino – ha un piano e, manco a dirlo, di lì in poi nulla sarà più come prima per i protagonisti della storia, violentemente risucchiati dai loro trascorsi familiari prima di essere masticati e definitivamente risputati attraverso una parabola collettiva che non avevano nemmeno immaginato.
Vincitore del John W. Campbell Award come miglior novel dello scorso anno, e nominato per i premi Nebula e Lotus, La città dell’orca (Blackfish City) è un romanzo rivelazione sulla struttura olistica del potere e sui privilegi di classe, genere e razza riprodotti in una società del futuro interamente dominata dalla narrazione della catastrofe e della sopravvivenza. Il mondo di Qaanaaq si rivela per gradi e a ogni nuovo livello acquista granularità e nitore, mano mano che riusciamo a sbirciare gli ingranaggi spesso mortali della colonia umana attraverso il vissuto dei suoi abitanti o all’auto-narrazione della città stessa, affidata alla voce di una misteriosa emittente pirata.
Rispetto alla Manhattan collassata e sommersa di Kim Stanley Robinson (New York 2140), il futuro che Miller delinea con un world building più dark e radicale, ha da tempo tagliato i ponti con il Vecchio Mondo keynesiano o quanto ne restava; l’offerta esistenziale si limita ora a panem et circenses e alla spola tra l’ultimo match di lotta (truccato) e la prossima scodella di noodles. A ogni angolo la posta in gioco sono, di volta in volta, la vita o la morte, la salute o la malattia, la libertà o il Ripostiglio (il manicomio locale): la sintassi della biopolitica impone codici binari elementari e chiari anche a un bambino, ma all’intelligenza delle macchine sfugge l’ambiguità analogica del reale, la fluidità dei generi, la promiscua empatia che si rivela nei legami psichici interspecie tra umani e animali. E qui, orsi a parte, Miller risulta sicuramente debitore di Philip Pullman e de La Bussola d’Oro (Salani, 2017). I legami tra le persone, i loro ricordi, sono contagiosi e possono essere scambiate per malattie. E, alla lunga, lo diventano sul serio quando isolati e combattuti dal potere come infezioni virali.
La poetica di Blackfish City filtra attraverso la vicenda dei suoi personaggi che, uno dopo l’altro, si lasciano alle spalle ogni illusione di riscatto individuale per abbracciare, non sempre consapevoli dell’azzardo, il flusso degli eventi e provare a cambiare insieme le loro vite.
Distopia o Utopia? L’arco narrativo di Blackfish City suggerisce che in tempi come i nostri entrambe le visioni sono legittime finché qualcuno poi non trova la chiave del cambiamento che stava giusto in fondo alla borsa. La parabola stessa di Sam J. Miller, 38 anni di Hudson, ci parla di un cambiamento arrivato in un momento inatteso: da macellaio, come suo padre e suo nonno, a scrittore dopo che l’arrivo di Walmart li costrinse a chiudere bottega. In ogni caso da leggere.