Howard Phillips Lovecraft, si sa, gode di una fama postuma che farebbe invidia a uno degli evangelisti. Una sorta d’iperbolica legge del contrappasso al rovescio lo ha reso, dopo la relativa oscurità e le innegabili ristrettezze patite in vita, probabilmente lo scrittore dell’orrore (in patria lo definirebbero, più accuratamente, weird) più influente del secolo scorso. Dal raffinatissimo Thomas Ligotti ad autori più o meno di largo consumo quali Stephen King, Clive Barker o Dean Koontz, non c’è contemporaneo che non abbia, in un modo o nell’altro, subito la fascinazione della spaventosa e dettagliatissima mitologia del “solitario di Providence”.
At the Mountains of Madness, racconto lungo o romanzo breve del 1931 è, in un corpus che straborda di allucinazioni e orrori d’ogni sorta, una delle produzioni più oscure e angosciose di Lovecraft. Fortemente ispirato a Le avventure di Arthur Gordon Pym, del quale condivide l’ambientazione antartica e il progressivo inoltrarsi in una terra incognita tanto favolosa quanto terrificante, si distacca da questo (pure citato a più riprese nel testo) per la livida freddezza d’esecuzione – il distacco scientifico da tavolo autoptico che meritò all’autore il titolo, azzeccatissimo, di “Edgar Allan Poe cosmico”.
Proprio le qualità scientifiche eppur bizantine della prosa di Lovecraft, spesso limate e ammorbidite in traduzione per renderne più masticabile lo stile innegabilmente ostico, sono l’oggetto di questa riedizione a opera de Il saggiatore, il cui curatore, Andrea Morstabilini, «rifugge la tentazione di ricondurre a una mal compresa “piacevolezza” lo stile ossessivo, tassonomico, rituale di Lovecraft» (cito dal risvolto anteriore). Operazione piuttosto riuscita, c’è da dire, anche se non posso esimermi dal notare come alcune scelte lessicali suonino più bizzarre che ricercate – passi “figmento”, ma “labirintino” è attestato dal solo dizionario Olivetti ed è, mi sembra, un calco piuttosto palese dell’inglese “labyrinthine”.
Il leviatano della prosa di Lovecraft ci conduce lentamente (e letteralmente) sull’orlo dell’abisso, e la traduzione è funzionale nel comunicare quello che è sicuramente il tratto più terrificante, interessante e originale dello scrittore: la vertigine parossistica dell’affacciarsi su profondità più antiche del tempo stesso, talmente sconfinate da rendere futile il concetto stesso di spazio, verso rivelazioni talmente orribili da annichilire il linguaggio e rendere immediatamente folle chiunque ne colga anche minimamente tutta l’immonda vastità.
L’effetto è quasi fisico. Gli ultimi capitoli de Le montagne della follia inducono un vago senso di nausea, ulteriormente acuito dalla freddezza incomprensibile con la quale Lovecraft comunica (o meglio, suggerisce) l’insopportabile peso ontologico portato dalla sua opera; ovvero l’affermazione continua e spietata dell’insignificanza umana in un cosmo che, oltre ad essere assolutamente insondabile, è totalmente indifferente; e peggio ancora, completamente privo di senso.