Il vorticoso avvicendarsi dei secoli non pare scalfire l’inesauribile validità e la luminosa pregnanza del lascito di Omero. Negli anni Quaranta del Novecento, mentre l’Europa è tragicamente sferzata da venti nazionalsocialisti, due studiose che molto hanno in comune tra loro avvertono l’esigenza, seppure in maniera indipendente l’una dall’altra e con esiti differenti, di rivolgersi al mito per mettere a fuoco il presente.
Ne L’Iliade o il poema della forza Simone Weil individua la contraddizione relativa all’umana fragilità, in virtù della quale vincitori e vinti, oppressori e oppressi sono parimenti segnati dalla violenza, e nel funesto alternarsi di quelle atroci sventure scoprono la miseria della loro condizione. La sua condanna nei confronti della guerra è inappellabile ed emerge con chiarezza nella considerazione conclusiva del testo, in cui sostiene che i popoli europei “ritroveranno forse il genio epico quando sapranno credere che nulla è al riparo dalla sorte, quando sapranno non ammirare mai la forza, non odiare i nemici e non disprezzare gli sventurati. È dubbio che tutto ciò sia imminente”.
Di origini ebraiche come la filosofa francese e come lei costretta all’esilio, Rachel Bespaloff elabora un pensiero che, al contrario, esalta il valore della resistenza. Le pagine che compongono Sull’Iliade, sebbene poggino su un impianto meno coeso rispetto al saggio di Simone Weil, offrono un numero significativamente maggiore di spunti di riflessione – non ultimo quello relativo all’energia creatrice e virile che contraddistingue l’evento bellico, quando esso coincide con la difesa e non con la distruzione. Ettore,“custode delle felicità periture”, sa che morendo abbandonerà “allo scempio tutto ciò che ama”, ma ciononostante non può tirarsi indietro, negando alla sua patria la gloria immortale del canto. “L’impulso cieco” che governa l’iracondo Achille lo conduce invece all’annientamento di sé e degli altri: il “metodico esercizio di rappresaglia” con cui trascina impietoso il cadavere del rivale intorno alle mura di Ilio segna il culmine della sua ebbrezza rancorosa, mitigata infine solo dalla compassione che lo investe di fronte al gesto di Priamo, il re che si inginocchia ai suoi piedi per implorare la restituzione del corpo del figlio.
Ammirevole risulta il piglio di Rachel Bespaloff quando riconosce alla poesia omerica il merito di rendere manifesta, “al di là dei conflitti, la misteriosa predestinazione che rende degni l’uno dell’altro gli avversari chiamati a un duello inesorabile. Omero non chiede riparazione se non alla poesia, la quale strappa alla bellezza riconquistata il segreto della giustizia negato alla storia. Essa sola restituisce al mondo ottenebrato la fierezza oltraggiata dalla superbia dei vincitori, il silenzio dei vinti”.
Popolato da altre celebri figure del mito – Teti con la sua placida grazia, Elena ammantata di regale austerità –, il volume si arricchisce da un lato di rilevanti rimandi al testo biblico (l’ispirazione, il disincanto, l’umiltà nei riguardi dell’esistenza), dall’altro di considerazioni sull’affinità tra il poema omerico e il capolavoro tolstoiano Guerra e pace. Nel fitto dei sanguinosi scontri che interessano la collettività, al singolo vengono svelate verità che si rivolgono direttamente al futuro: l’epopea edificata dai grandi autori costituisce il fondo comune del nostro immaginario e questo, benché per Rachel Bespaloff non equivalga a riscattarci, corrisponde tuttavia a una sorta di risveglio della nostra “volontà creatrice”.
Lontana dalla sua Europa e irrimediabilmente angosciata dalle sorti del suo tempo, la pensatrice di origini bulgare nutre il bisogno di tornare alle radici della letteratura occidentale per instaurare un dialogo critico e mai pedissequo o astratto con il mondo contemporaneo. Accanto a sua figlia la donna rilegge Omero e combatte così la sua personale resistenza.