L’ignorante nel palazzo e la tristezza nelle strade

La lingua è un’urgenza politica e l’autenticità delle comunicazioni è preziosissima là dove abbondano scettici, dissonanza cognitiva e complottismi.
Andrea Binelli è professore associato di lingua e traduzione - lingua inglese (Un. di Trento)

Ripercorro alcuni fatti recenti e provo a inquadrare il contesto entro cui avvengono. 1. Se a scagliarsi contro il politically correct è un ventaglio di intellettuali quali Jerry Calà, Elisabetta Canalis, Sallusti, Boldi, Totolo, i giocatori della nazionale e Povia; 2. Se i media sono intasati dallo sdegno contro “la dittatura del pensiero unico del politically correct” cui riservano lo stesso spazio di pandemia, crisi economica e guerra in Palestina; 3. Se a legittimare il furore delle proteste sono entità inesistenti come la famigerata teoria gender e la presunta cancel culture (di questa ho documentato dodici scandali, o flame, innescati da fatti di cronaca mai accaduti o travisati a bella posta); 4. Se queste invenzioni diventano capri espiatori contro cui aizzare le frustrazioni di comunità grondanti vittimismo livoroso e complici dei propri mali al punto da non vederne le effettive responsabilità. Ecco, la convergenza di questi fenomeni pone una questione politica urgente di cui, per i limiti delle mie competenze, affronterò principalmente la dimensione linguistica e comunicativa.

Perché così tante persone, dal conoscente al bar al vecchio inquilino del condominio, sono infastidite dalla richiesta di un linguaggio rispettoso delle differenze? Cosa indigna nella scelta di un traduttore empatico verso i contenuti identitari di una poesia, quella di Amanda Gorman, innervata dalla velleità di corredare l’esperienza delle nere americane di una forma espressiva creativa?[1] Cosa permette il paradosso che ad aggredire il “pensiero unico” siano i volti del teatrino che ogni giorno sui media commerciali appiattisce e banalizza i temi sociali e i contenuti culturali? Persone – serve ricordarlo – delle cui competenze e sensibilità in realtà sappiamo poco, perché sarebbe presuntuoso presumerle a partire dai ruoli che ricoprono su tali media, dove semmai compaiono allo scopo di aumentare audience e indicizzazione, dunque per produrre discorsi autoreferenziali con toni sensazionali: l’opposto di un approfondimento culturale. Quanto segue sarà dunque più utile se si separa il magma autoreferenziale del discorso mediatico dal pensiero di chi comunica e se si riconosce che le differenze fra Draghi e Conte, come fra altri antagonisti politici, non siano quelle di stile comunicativo su cui finge di arrovellarsi il dibattito politico ufficiale emulato acriticamente da altrettanto dibattito social.

Ignoranza, falsa coscienza, livore

Dopo queste premesse alcuni appunti. Dal pentolone dove gli alfieri della crociata contro il pensiero unico del politically correct gettano tutto e tutto il suo contrario, rendendo irriconoscibili le distinzioni sopra citate e molte altre ancora, esce un brodo saporito soprattutto grazie ad analogie a cui siamo assuefatti ma che offendono l’intelligenza: parlare dell’Italia come di una famiglia è prassi retorica efficace ma poche strutture sociali sono più distanti e dunque meno comparabili. Parlare di crisi finanziaria come di un terremoto produce corrispondenze brillanti fra i due ambiti ma di fatto la crisi è il risultato di scelte umane modificabili, mentre una calamità naturale è ineludibile e prescinde dal nostro agire. Certe associazioni sono già insidiose se insinuate attraverso il linguaggio figurato perché veicolano valutazioni nascoste che col tempo introiettiamo. Se poi le usiamo per costituire il nerbo di un argomento fanno saltare il banco. Anziché tollerare associazioni inesatte e riprodurne i passaggi logici distorti è opportuno tornare a denunciare le intenzioni manipolatorie di certi argomenti: non farlo ci lancia in una corsa al ribasso che inquina la lingua, immiserisce il pensiero e rappresenta uno dei problemi principali della società odierna. La provocazione a effetto poiché di pancia e sguaiata, ovvero, affermare in merito alle responsabilità del personale penitenziario nella morte di Cucchi che “questo dimostra che la droga fa male sempre e comunque”, scrivere che “oggi nevica alla faccia di Gretina”, insinuare che “se Draghi fa bene a rinunciare allo stipendio, allora devono farlo anche gli autisti pubblici?”, o buttare là che “quindi io non posso tradurre un autore biondo con gli occhi azzurri?” sono affermazioni di gravità diversa ma che condividono l’accostamento di piani non calzanti e la confusione fra discorsi diversi: droga e violenza dei secondini; populismo classista e sfruttamento; clima e tempo nelle ultime 24 ore; le affinità elettive e quelle fra fisionomie.

Perché allora in seno alle discussioni più disparate un po’ tutti ci troviamo a difendere idee sostenute dalla sovrapposizione impropria del piano della discussione (il problema) e un piano farlocco e strumentale (l’analogia)? Se non siamo in malafede, avviene per due motivi: o non abbiamo gli strumenti per le dovute distinzioni o siamo accecati dal narcisismo permaloso di chi non può ammettere alcun difetto, pena l’incrinarsi di una falsa coscienza che, una volta messa a nudo, svelerebbe non tanto l’incapacità di affrontare gli errori quanto un problema di autoconsapevolezza. Il primo motivo, come anticipato, è uno dei problemi principali della comunicazione odierna ed è imbarazzante da esplicitare, soprattutto per un accademico. Ma è da codardi non farlo. Un numero crescente di persone non ha la capacità di mettere a fuoco gli argomenti fuorvianti e la malafede di chi li produce. Queste difficoltà interpretative e l’analfabetismo funzionale verso cui tendono sono tanto più problematici in quanto contemporanei all’aumento esponenziale delle persone che nelle piazze virtuali e fisiche sentono l’urgenza di esprimere un parere su questioni che non conoscono ma credono di conoscere, anche perché, “alla fin fine per avere le idee più chiare dei professoroni basta un po’ di buon senso, no”? Lasciando da parte la questione non banale che la figura dell’esperto televisivo sembra scelta proprio per indurre scetticismo e complottismo, qui le due anime del problema – da una parte l’ignoranza e dall’altra la falsa coscienza nutrita dalla rimozione dei propri limiti con conseguente rancore che si proietta verso l’esterno, sui capri espiatori di turno – si saldano pericolosamente.

EricailcaneLa novità oggi non è un’opinione pubblica improvvisamente più raggirabile di prima. Pensarlo equivarrebbe a idealizzare il passato. E non lo è nemmeno la sistematicità di fake news e manipolazioni. Ogni fase storica si immagina sul gradino più alto di una scala, ma se oggi fossimo nell’epoca della post-verità avremmo vissuto un’epoca precedente di verità, che però non si dava ai tempi di Hannah Arendt, Heidegger, Rousseau, Locke, Descartes, Machiavelli e così via fino alla notte dei tempi. La maggiore difficoltà di oggi è semmai la sfasatura impressionante fra quanto siamo effettivamente dotati di cultura, conoscenze e capacità critica e quanto riteniamo di esserlo, con la seconda quantificazione che spesso supera la prima fino a doppiarla. È l’esasperazione del paradosso che Dunning e Kruger mutuarono da Aristotele: più sai più ti rendi conto di quanto ancora devi sapere. Meno sai e meno ti rendi conto di quante cose non sai. Ma allora per quali motivi questo autoinganno e la succitata sfasatura sono oggi così diffusi?

Paghiamo e quindi crediamo di sapere

Temo abbia a che fare con l’inedita percentuale di conoscenze inevitabilmente omologate e ideologizzate che acquistiamo dai media, senza spesso riconoscerne questi connotati, rispetto a quella che acquisiamo con esperienze personali. Oggi siamo o più probabilmente ci riteniamo informati nel momento in cui compriamo informazioni da giornali, video, testi che mostrano esperienze altrui, di pochi e sempre degli stessi: politici, sportivi, vip, la vittima, il carnefice, lo sfortunato, etc. Insisto sul fatto che siano a pagamento perché è fondamentale. Oltre a giornali, connessioni, tivù e dispositivi per navigare, infatti, anche la presenza in rete e davanti alla tivù si paga, accettando la pubblicità e cedendo informazioni a chi sa farne tesoro. E questa dimensione è cruciale in quanto l’acquisto ci dà l’illusione di aver fatto il nostro dovere e compiuto il nostro sforzo di socializzazione, educazione e consapevolezza civica. È come se ci mettesse la coscienza a posto, legittimando a non fare passi più concreti in altre direzioni. E di solito siamo già abbastanza delusi e frustrati dallo scenario raccontato sui media da presumere che quei passi sarebbero comunque inutili. Paghiamo e quindi crediamo di sapere. Lo shopping frainteso come cultura: Erich Fromm ai tempi di Facebook, anzi, ai tempi dei frustrati su Facebook, perché quel ‘credere di sapere’ più spesso conduce a scetticismo verso ogni ipotesi di cambiamento, ipotesi contro le quali, non a caso, la guerra preventiva delle parole è feroce.

E fuori dal virtuale non va meglio. Anche gli spazi della socialità fisica ormai sono quasi sempre a pagamento, non di rado in nome di una battaglia per un’idea destrorsa di decoro che altro non è se non il volto moraleggiante e conformista di una selvaggia ingegneria sociale classista. La stessa impugnata dalla stragrande maggioranza dei sindaci del cosiddetto centrosinistra. “Se sei un turista da kebab stattene pure a casa”. “Se non hai soldi che esci a fare”. Sono messaggi infami, agghiaccianti ma divenuti normali. A tal proposito la dice lunga che il dibattito sull’estensione del coprifuoco abbia riguardato unicamente ristoranti e luoghi di consumo. In definitiva, la penuria di esperienza diretta, l’invasività di quella mediatizzata apparentemente neutra ma in realtà portatrice di un’ideologia consumista che valorizza la persona in base alla ricchezza e la diffusa presunzione di cultura (che a ben vedere consiste nella disponibilità a pagare un abbonamento telefonico e un computer) hanno un ruolo decisivo sulla scarsa capacità odierna di svelare argomentazioni fallaci e sulla falsa coscienza che ci impedisce di affrontare e riconoscere i nostri errori. Non escluderei che la nostra epoca passi alla storia come quella in cui la forbice fra effettiva competenza e presunzione di competenza si è allargata oltre ogni livello di guardia. Questo vale per l’ignorante convinto di saperne più degli altri riguardo ai vaccini grazie a un sito ‘onesto’ come per l’adepto di QAnon o il fascista che ritiene l’Olocausto un’invenzione; e vale per chi da sinistra considera Greta una pedina di Soros e teme che le lotte per i diritti LGBTQ+ siano fuorvianti e distraggano dalle urgenze del lavoro. Vale anche per il depositario mediatico di uno stile pop di sinistra il quale, se toccato da una critica per dei fatti concreti (invitare poche donne al proprio programma e pubblicizzarlo con sei volti di uomini e uno, peraltro centrale, di donna), reagisce spiegando a chi ha formulato la critica, e incidentalmente a tutti gli altri, come funziona il suo programma. È una reazione patetica. L’ottusità con cui di fronte ai dati di fatto si contrappone il sedicente, ossia cosa crediamo di essere nonostante quello che facciamo, svela proprio questo iato fra azione e presunzione. Non era meglio ammettere la negligenza e impegnarsi in direzione contraria?

Prendere atto di una critica, ammettere un errore e ripromettersi di evitarlo in futuro è difficile ma doveroso se oltre al marketing e al già citato zelo narcisista si ha davvero a cuore una sfera politica. E se a tutti i livelli, a destra e a sinistra, ci crediamo più colti, più autentici e più giusti di quanto non siamo veramente, creando così terreno fertile per populismi, distorsioni e in ultimo il mare di tristezza cupa in cui navighiamo, è forse perché per vari motivi sono venuti meno gli spazi dell’esame di coscienza e della responsabilità diretta. A furia di delegare siamo arrivati a essere sempre meno protagonisti di ciò che ci riguarda. E ci fa rabbia, una rabbia repressa. Ho visto le stesse persone organizzare pranzi sociali per “l’ultimo giorno in giallo” e poi ubbidire per settimane “arancioni” all’obbligo di non uscire dal proprio comune di pochi km quadrati. Eppure i dati su cui si basa la scelta dei colori dovrebbero suggerire come comportarsi al di là delle leggi. Se domani scatta l’arancione, significa che il contagio sale e oggi è il giorno meno indicato per un pranzo anche se la legge lo permette. Viceversa, sebbene durante il primo lockdown fosse vietato da norme ridicole, superstiziose e avversate dai competenti, bene ha fatto chi è uscito ugualmente all’aria aperta dove e quando sapeva di non rischiare e di non far rischiare il contagio a nessuno. Ma questa autodisciplina anarchica è sentita come un oltraggio anche presso quelle comunità di sinistra che si raccontano di aver fatto dell’ideale libertario una stella polare. È in parte una “sinistra nello stile” che non attende l’intervento salvifico dei capitani ma non riesce a non provare sollievo per quello di tecnici, banchieri e politici dal ‘profilo internazionale’, dribblando questa contraddizione con la scusa eterna del ‘meno peggio’. Ci servono davvero i leader? Quanto la loro esistenza è legittimata dall’assuefazione al teatrino che mette in scena gli stili e cela i contenuti? Il menopeggismo che induce molti e molto spesso a turarsi il naso ci ha gradualmente trasformato in maggiordomi che non sentono più gli odori?

Possibili vie di fuga

Torno sulla questione comunicativa e le sue urgenze per immaginare vie di fuga. I nostri spazi, nei paesi e nei quartieri, hanno bisogno di alfabetizzazione, studio, cultura, arte e piacere, dove ogni elemento sviluppi il successivo. Ci servono risorse, visibilità e supporto per quei luoghi fisici dove tutto ciò circola. Le risorse devono venire da chi ha di più, senza se e senza ma. L’acquiescenza, anzi, il maggiordomismo e con esso la levata di scudi dei poveri contro il principio della patrimoniale vanno contro-argomentati con puntualità divertita e pratiche concrete. Se non diamo vita con tutti i mezzi necessari a questi spazi, continueremo ad avvitarci nel pressapochismo delle analogie farlocche per cui, ad esempio, ogni critica alla gestione della pandemia viene associata al negazionismo. La riduzione del linguaggio è riduzione del pensiero e con la riduzione del pensiero diventiamo più pavidi, insicuri, tristi e rancorosi. Siamo abbrutiti perché siamo narcisi feriti perché siamo ignoranti perché siamo impauriti perché siamo abbrutiti… La società che liquida come ‘professorone’ chi fa un ragionamento complesso è una società pericolosa, stupida e poco divertente. Al contrario, il politically correct inteso come lingua che tutela individualità e differenze senza far sentire additato nessuno crea le condizioni per rendere una società più sicura, intelligente e divertente. L’anti-intellettualismo e l’allergia al ‘culturale’ vanno denunciati per quello che sono: le condizioni di sopravvivenza dell’ignorante che solo in questo modo può vantarsi di esserlo restando aggrappato a una poltrona. Sono le stesse persone che identificano la cultura del rispetto e della diversità come cancel culture e dittatura del pensiero unico, ma poi chiedono rispetto per istanze razziste, misogine e omofobiche difendendole in quanto opinioni. L’impostura alla base di queste contraddizioni è evidente. La libertà è tale finché non danneggia l’altro. Un’opinione che invece esclude, produce violenza e limita le libertà altrui non è neutra e la storia mostra quanto sia indispensabile essere fermi nel rispettare tutte le opinioni tranne quelle che non rispettano le opinioni altrui. E ancora: vivere il proprio corpo e la propria vita senza recare danno agli altri è una libertà. Impedire agli altri che lo facciano limitandone la libertà è prevaricazione. Non si può quindi essere al contempo in buona fede, dirsi di sinistra e allinearsi alla brigata Voltaire e alla sua funzione di sdoganamento dei fascismi.

Seeing Whales di EricailcaneDobbiamo continuare a chiamare opinione un’opinione, libertà la libertà, violenza la violenza. E l’autenticità resta tale se usata in un ragionamento complesso o in una battuta con delle parolacce. Solo un clima oscurantista come quello mediatico odierno può abbagliare con i finti galatei che tolgono parola al subalterno, l’omologazione delle comunicazioni che rende incomunicabili le istanze dal basso, i filtri dei media che allontanano i contenuti fino a farli sfumare in stile. L’autenticità raramente coincide con la genuinità artefatta delle battute di pancia nei filmati e nei post gastronomici di politici populisti che in mezzo al popolo non resisterebbero dieci minuti. La lingua è un’urgenza politica e l’autenticità delle comunicazioni è preziosissima là dove abbondano scettici, dissonanza cognitiva e complottismi. Tanto più in un’epoca in cui molta sinistra è a sinistra per stile, avendo sposato l’ideologia liberale e abbandonato il campo più materiale e sovversivo della politica. Un ultimo esempio. Sarà un caso che la destra usi sempre l’inglese per battezzare i nemici inventati, rendendone i contenuti poco trasparenti e corredandoli di un’aura colta: politically correct, teoria gender, cancel culture? No. Evidentemente e per ragioni che i curatori della comunicazione di Draghi hanno intuito – il De vulgari eloquentia di Dante le spiega bene – l’uso dell’inglese in politica oggi è masochistico. Ne possiamo trarre un’ulteriore lezione di autenticità: perché tirare in ballo il politically correct quando chi fa un uso spregiativo di termini come frocio, negro e handicappato è assai più ragionevole chiamarlo offensivo o, meglio ancora, pezzo di merda?

NOTE

[1] Gorman, poeta e attivista nera chiamata da Biden e Kamala Harris a leggere i suoi versi durante l’insediamento presidenziale, è spesso accostata al Black Lives Matter Movement per motivi cronologici e comunanza di temi come l’antirazzismo. La sua The Hill We Climb è stata acquistata da svariate case editrici nel mondo e ha fatto scalpore il caso di quella olandese che ne ha commissionato la traduzione a un giovane poeta non-binario di successo, Marieke Lucas Rijneveld, che, dopo aver accettato con entusiasmo, ha poi declinato l’incarico su pressione di intellettuali neri. Come illustrato in una sua poesia pubblicata dal Guardian, Rjineveld ha infatti condiviso l’idea di chi preferisce che a tradurre Gorman non sia un autore affermato ma con nessuna esperienza di traduzione, limitata conoscenza dell’inglese e del contesto dell’opera, soprattutto quando sono disponibili valenti traduttrici che condividono il percorso emancipatorio di una donna, giovane, nera e attivista. Credo che al diniego di Rjineveld abbia contribuito la volontà di tesaurizzare l’affinità umana, estetica e politica fra autore e traduttore – non indispensabile ma nemmeno da rinnegare laddove disponibile – a dispetto di un criterio commerciale che sembrava piuttosto sfruttare la trasversalità delle ‘diversity’ di due autrici. Eppure, mentre Rjineveld forniva le sue spiegazioni, la stampa italiana volgeva lo sguardo altrove e gridava allo scandalo, glissando sul nesso politico e riducendo tutto al colore della pelle per così allungare il fantasioso elenco delle vittime del “razzismo degli antirazzisti”. Ma il colore della pelle è solo un attributo di una questione ampia, quella ‘etnica’, che ha senso se inserita in una più ampia ancora, quella politica dell’identità. Purtroppo tanti traduttori non hanno individuato le manipolazioni di chi riportava le notizie obliterando le ragioni di Rjineveld e dando sfogo a una sospetta pruderie reazionaria. Goffa e fuori fuoco la difesa della legittimità per chiunque di tradurre chiunque. Nessuno l’ha messa in discussione. Tale legittimità, però, non deve azzerare quella di tradurre forti di un’affinità umana che sostanzi lo sforzo filologico ed empatico di ricostruzione di un mondo poetico.


Le immagini sono di Ericailcane