Uomini misteriosi, pochi, misteri moltissimi in quel decennio remoto (gli anni ’70) che ancora pesa di conti e provocazioni in sosta dentro un limbo polveroso, nebbioso, affumicato. E ricolmo di schegge. Espressioni queste, sulla cui presunta banalità alcuni cretini scherzano come se la memoria fosse in mano a Lewis Carroll e non a coloro che oggi, settantenni e ottantenni, ancora ricordano, ricordano per i trascorsi sulle mattonate metropolitane e per la massa (pesante) dei libri letti. Libri pubblicati allora, e libri postumi. Questi pensionati tacciono, mai si candidano, si ritrovano incerti sulla propria età, e con un cattivissimo rapporto con l’invecchiamento: mai stati capaci di accettare le carenze ormonali, troppo affezionati (narcisismo dove sei?) a quella giovinezza che all’epoca aveva i suoi cori, i Led Zeppelin e la diatriba (mai sopita) Beatles vs Rolling Stones. La giovinezza era rivoluzionaria, Lidia Ravera lo ribadisce tipicamente capace perfino di allegria nel corso di interviste ben lontane da slogan e conformismo postumo. Nella letteratura lei ci sta, fin dai tempi di Porci con le ali e l’umanesimo del Pane e le rose, vivace summa di femminismo, libertà sessuale, musica pop/rock: non chiediamoci che ne pensano oggi i nipotini, ammesso che nipotini siano di una generazione fotografata in album non sempre (anzi, quasi mai) veritieri o lucidamente illustrativi. Ma interroghiamo invece i pensieri di questi baby boomer italici mai del tutto sfrondati dalla parte sbagliata.
Avanti, parla narra (in prima persona) il periodo in cui Giovanna – operaia in pensione dai folti capelli bianchi (rinominata “chiomavecchia”), folto passato che gradualmente, a passi lenti, svelerà al lettore – si vede scardinare l’eremo casalingo in cui da anni sta rinchiusa, evitando amicizie, storie amorose, figli e luoghi sociali. Nuovi vicini nell’appartamento accanto, giovani, esuberanti: musicista lui, bellissima lei, accompagnati da una bimba di tre anni (Malvina), estroversa e gioiosa, e da un ragazzo di tredici anni (Malcolm) impegnato a salvare il mondo dall’inquinamento. Giovanna sconta una penitenza personale, fatta di silenzio e di un tempo sconfinato in cui nessuno entra, dopo aver saldato i “debiti” con la giustizia. Ben presto i confini del suo appartamento vengono dischiusi dalla bimba, Malvina, che trova in lei una mente fertile di invenzioni, giochi, cibo gaudioso e riposi caldi e teneri in un ambiente benevolo.
Il romanzo di Lidia Ravera è un resoconto schietto e nitido, fuoriesce da un occhio interiore allenato, in cui i fatti e i sapori di un’epoca si fanno ancora sentire, idraulici quanto basta perché non smettano di scorrere nelle vene e condizionino i giorni esistenti: gesti abituali, musica influente, passi rasenti ai muri per lasciarsi dietro orme invisibili. Il più possibile. Giovanna nel suo taccuino non scrive di pentimenti o strappi, di decorosi edifici che si affacciano sul Tevere, non cerca aiuto, si tratta soltanto di espellere parole perché si liberino sulla pagina e non invadano il corpo già fin troppo afflitto da esperienze e cicatrici. Sarà dovuto all’età di chi scrive questa rubrichetta, sarà perché le folle sulle strade negli anni ’70 erano le stesse in ogni città, stessi i giornali con foto terribili in prima pagina, stesso il Novecento mai davvero terminato nei comuni tormenti, ma questa donna dai lunghissimi capelli bianchi si siede comodamente nel nostro immaginario quotidiano – sembra chiedere un asilo garbato, appena corretto da pochi bicchieri di Fiano di Avellino. Le piace raccontare di Malvina, quasi adottata in tutta la sua bellezza neonata, e capace di spalancare un varco emotivo poco meno che rivoluzionario. Le piace il tredicenne Malcolm, dallo sguardo apparentemente distante e fisso sugli schermi digitali, che intuirà più cose di quanto lei immagini.
Personaggi antichi e nuovi rispondono all’appello, aggrediscono i sentimenti rugosi di Giovanna e i nostri che si lasciano investire dall’assalto, fanno riemergere nell’umidità degli occhi, inatteso, un antico gusto salato. L’autrice non sottrae Giovanna, né se stessa, a commenti talvolta irriguardosi, e fosche ricadute in sentori di violenza che occorrerebbe togliere alle vecchie prognosi per affidarli a una conclusiva (e chiarificatrice una volta per tutte) pace. Ma niente è mai così semplice, nemmeno un mezzo secolo può qualcosa di fronte alle svolte perseguite e pattuite in quegli anni. Di Piombo? Non solo, non solo. Chiomavecchia è stata finalmente slacciata, a cuore aperto, nella sua vulnerabilità, qualcosa che prima o poi doveva succedere c’è stato. Dove l’intero suo corpo, l’intera sua mente, sono andati a finire lo scopriamo nelle pagine conclusive del resoconto, nella “minima” epica che questo libro ci consegna a piene mani: da clandestino ai clandestini ancora vivi che sarebbe bene parlassero. Anche loro.