Lidia Ravera parla, parliamo anche noi

Lidia Ravera, Avanti, parla, Bompiani, pp. 344, euro 18,00 stampa, euro 11,99 epub

Uomini misteriosi, pochi, misteri moltissimi in quel decennio remoto (gli anni ’70) che ancora pesa di conti e provocazioni in sosta dentro un limbo polveroso, nebbioso, affumicato. E ricolmo di schegge. Espressioni queste, sulla cui presunta banalità alcuni cretini scherzano come se la memoria fosse in mano a Lewis Carroll e non a coloro che oggi, settantenni e ottantenni, ancora ricordano, ricordano per i trascorsi sulle mattonate metropolitane e per la massa (pesante) dei libri letti. Libri pubblicati allora, e libri postumi. Questi pensionati tacciono, mai si candidano, si ritrovano incerti sulla propria età, e con un cattivissimo rapporto con l’invecchiamento: mai stati capaci di accettare le carenze ormonali, troppo affezionati (narcisismo dove sei?) a quella giovinezza che all’epoca aveva i suoi cori, i Led Zeppelin e la diatriba (mai sopita) Beatles vs Rolling Stones. La giovinezza era rivoluzionaria, Lidia Ravera lo ribadisce tipicamente capace perfino di allegria nel corso di interviste ben lontane da slogan e conformismo postumo. Nella letteratura lei ci sta, fin dai tempi di Porci con le ali e l’umanesimo del Pane e le rose, vivace summa di femminismo, libertà sessuale, musica pop/rock: non chiediamoci che ne pensano oggi i nipotini, ammesso che nipotini siano di una generazione fotografata in album non sempre (anzi, quasi mai) veritieri o lucidamente illustrativi. Ma interroghiamo invece i pensieri di questi baby boomer italici mai del tutto sfrondati dalla parte sbagliata.

Avanti, parla narra (in prima persona) il periodo in cui Giovanna – operaia in pensione dai folti capelli bianchi (rinominata “chiomavecchia”), folto passato che gradualmente, a passi lenti, svelerà al lettore – si vede scardinare l’eremo casalingo in cui da anni sta rinchiusa, evitando amicizie, storie amorose, figli e luoghi sociali. Nuovi vicini nell’appartamento accanto, giovani, esuberanti: musicista lui, bellissima lei, accompagnati da una bimba di tre anni (Malvina), estroversa e gioiosa, e da un ragazzo di tredici anni (Malcolm) impegnato a salvare il mondo dall’inquinamento. Giovanna sconta una penitenza personale, fatta di silenzio e di un tempo sconfinato in cui nessuno entra, dopo aver saldato i “debiti” con la giustizia. Ben presto i confini del suo appartamento vengono dischiusi dalla bimba, Malvina, che trova in lei una mente fertile di invenzioni, giochi, cibo gaudioso e riposi caldi e teneri in un ambiente benevolo.

Il romanzo di Lidia Ravera è un resoconto schietto e nitido, fuoriesce da un occhio interiore allenato, in cui i fatti e i sapori di un’epoca si fanno ancora sentire, idraulici quanto basta perché non smettano di scorrere nelle vene e condizionino i giorni esistenti: gesti abituali, musica influente, passi rasenti ai muri per lasciarsi dietro orme invisibili. Il più possibile. Giovanna nel suo taccuino non scrive di pentimenti o strappi, di decorosi edifici che si affacciano sul Tevere, non cerca aiuto, si tratta soltanto di espellere parole perché si liberino sulla pagina e non invadano il corpo già fin troppo afflitto da esperienze e cicatrici. Sarà dovuto all’età di chi scrive questa rubrichetta, sarà perché le folle sulle strade negli anni ’70 erano le stesse in ogni città, stessi i giornali con foto terribili in prima pagina, stesso il Novecento mai davvero terminato nei comuni tormenti, ma questa donna dai lunghissimi capelli bianchi si siede comodamente nel nostro immaginario quotidiano – sembra chiedere un asilo garbato, appena corretto da pochi bicchieri di Fiano di Avellino. Le piace raccontare di Malvina, quasi adottata in tutta la sua bellezza neonata, e capace di spalancare un varco emotivo poco meno che rivoluzionario. Le piace il tredicenne Malcolm, dallo sguardo apparentemente distante e fisso sugli schermi digitali, che intuirà più cose di quanto lei immagini.

Personaggi antichi e nuovi rispondono all’appello, aggrediscono i sentimenti rugosi di Giovanna e i nostri che si lasciano investire dall’assalto, fanno riemergere nell’umidità degli occhi, inatteso, un antico gusto salato. L’autrice non sottrae Giovanna, né se stessa, a commenti talvolta irriguardosi, e fosche ricadute in sentori di violenza che occorrerebbe togliere alle vecchie prognosi per affidarli a una conclusiva (e chiarificatrice una volta per tutte) pace. Ma niente è mai così semplice, nemmeno un mezzo secolo può qualcosa di fronte alle svolte perseguite e pattuite in quegli anni. Di Piombo? Non solo, non solo. Chiomavecchia è stata finalmente slacciata, a cuore aperto, nella sua vulnerabilità, qualcosa che prima o poi doveva succedere c’è stato. Dove l’intero suo corpo, l’intera sua mente, sono andati a finire lo scopriamo nelle pagine conclusive del resoconto, nella “minima” epica che questo libro ci consegna a piene mani: da clandestino ai clandestini ancora vivi che sarebbe bene parlassero. Anche loro.