All’interno della gradevole e illustratissima collana dell’editore Gremese, I migliori film della nostra vita, ogni volume della quale è interamente dedicato all’analisi dettagliata di un film cult – da Tutte le ore feriscono l’ultima uccide di J. P. Melville a L’Atalante di Jean Vigo, da L’invasione degli Ultracorpi di Don Siegel a Kill Bill di Tarantino, e così via – è da poco uscito un intrigante libretto che affronta con piglio sicuro e appassionato la controversa escursione vampirica di F. F. Coppola, datata 1992.
L’autrice è Anna Berra, giornalista e narratrice, che sa conferire al suo testo un piacevole taglio personale, molto lontano da quello presuntamente (e talvolta presuntuosamente) analitico del critico cinematografico, a cui siamo più abituati, ed è invece assolutamente soggettivo, entusiasta, appassionato – aggettivo che ho già usato e che meglio di tutti gli altri caratterizza la sua prosa. Non che questo approccio “caldo” all’argomento nuoccia nell’approfondimento della materia, tutt’altro, i precisi riferimenti iconografici, iconologici e tematici ci sono tutti e vengono scanditi e dettagliati anche attraverso un minuzioso apparato di splendide immagini a colori. Anna Berra infatti, oltre che informare e documentare il lettore, vuole (forse soprattutto) trascinarlo nell’esperienza della visione del film e contagiarlo – quasi draculianamente – con la sua stessa ardente dedizione all’opera e ai suoi autori.
Direi che ci riesce perfettamente se ha indotto perfino me, per la prima volta, a rivedere – lo farò presto – e riconsiderare un film che, visto all’uscita, non mi era piaciuto per niente. Di tutta la cinematografia vampirica, da me abbondantemente frequentata, era quello che più mi appariva intruso ed estraneo: sdolcinato melò travestito da horror. Dracula innamorato? Dannato per amore e salvato dall’amore? Una sorta di para-Faust emoglobinico? Giammai! Un vampiro, per me, cerca solo prede: può magari abbandonarsi alla lussuria repressa come il vecchio bruttone Nosferatu, o alla seduzione immonda, indiscriminata e polimorfa come il Christopher Lee Hammer, ma le romanticherie, le fanciulle reincarnate e le passioni oltre la barriera del tempo vanno bene al massimo per Il segno del comando – storico sceneggiato Rai gotico con Aldo Pagliai e Carla Gravina –, non certo per il classico di Bram Stoker.
Anche sul cinema di Coppola in generale poi avevo delle perplessità. Per me c’erano solo due capolavori indiscussi in una filmografia quasi del tutto trascurabile: La conversazione (1974) e Apocalypse Now (uno dei miei film preferiti in tutte le possibili versioni, dall’originaria alla redux e all’ultimo director’s cut rimontato); già Il padrino diventava una questione problematica: partiva benissimo nel 1972 con la parte I, proseguiva benino nel 1974 con la parte II, ma crollava miseramente nel 1990 con la parte III. Finché si mantiene sobrio, asciutto e freddo, Coppola funziona egregiamente, ma se si abbandona al sentimentale, al mieloso e al melodrammatico, diventa volgare e ridicolo. Dracula arrivava proprio dopo uno dei suoi film più brutti, appunto Il padrino parte III, e un po’ di tutto quel kitsch melodrammatico, per me, sgocciolava ancora appiccicaticcio e melassoso sul nuovo progetto, andando a degradare ed edulcorare il beneamato e necessariamente empio mito vampirico.
Sottolineando i particolari – la raffinatezza dei costumi di Eiko Ishioka (che giustamente la Berra mette in relazione alle armature samurai e alle opere grafiche di Enki Bilal), delle scenografie, delle scelte fotografiche e coloristiche, i rimandi visuali all’arte dei Preraffaelliti, dei Simbolisti, fino a quella di Gustav Klimt o di Francis Bacon, gli interventi vocali orgiastici e caotici dell’eccelsa soprano lirica passata al rock Diamanda Galas – però, la scrittrice evidenzia e risalta aspetti che trascendono di gran lunga la mera letteralità tematica.
Insomma non è un successo di poco conto, per il libro della Berra, avere fatto riflettere un risoluto denigratore del film come me sul giudizio forse troppo frettoloso che una singola visione potrebbe aver indotto; il peso degli anni inoltre non è escluso abbia ribaltato il mio punto di vista: non resta che provare. Nel caso, cambiata opinione, ringrazierò personalmente l’autrice del prezioso volumetto che avrebbe, in quell’ipotesi, centrato perfettamente il suo scopo. Altrettanto, credo e spero, dovrebbero fare anche molti, moltissimi altri lettori e spettatori, vecchi e nuovi.