LIBERTARIA – Vol. I L’anarchia oltre wikiquote

È uscito in questi giorni il primo volume di 'Libertaria - Un'antologia scomoda' che si propone di ripercorrere le tappe principali del pensiero anarchico, dalle origini ai nostri giorni, attraverso la voce viva degli autori che hanno ne maggiormente influenzato la filosofia e la prassi politica.

Se vi fosse un premio “Arditi del Popolo” per l’editoria, la vittoria in quest’anno semipandemico andrebbe certamente appannaggio dell’imponente progetto enciclopedico denominato “Libertaria – Un’antologia scomoda” del quale è appena uscito il primo volume.

La casa editrice D di Roma ha fatto sua la folle intenzione di pubblicare una summa del pensiero anarchico, divisa in cinque tomi. Un vero piano quinquennale (ops!) di selezione critica, basato su documenti, manifesti, testimonianze e saggi atti ad esplorare le grandi aree tematiche storicamente legate alla filosofia con la A iniziale – e ogni tanto cerchiata.

Impresa questa ancora più nobile e temeraria perché realizzata in un periodo nel quale, come ci suggerisce il pluripremiato film Nomadland, essere oppressi e sfruttati, senza alcuna ambizione di conflitto o emancipazione sociale, è diventata una condizione incredibilmente trendy, in bilico tra le comunità di Emmaus e quelle di Amazon.

Il primo volume di “Libertaria” mette quindi sul piatto, a titolo introduttivo, quasi un secolo e mezzo di contributi i più eterogenei (crisi, frustrazioni emcontraddizioni comprese), pubblicati originariamente in almeno tre lingue e otto nazioni differenti.

E trasformare un flusso magmatico di teorizzazioni disparate in uno spaccato – termine molto caro a noi anarchici – storico che le riconduca alla loro concretezza non è certo un lavoro semplice. Soprattutto se parliamo dell’evoluzione di un pensiero che ha sempre preferito le forme espressioniste della soggettività a quelle realiste dell’ontologia marxista.

I capitoli maggiormente corposi di questo primo volume sono dedicati all’esposizione retrospettiva dei termini anarchia ed anarchici. Qui si è scelto, forse troppo ingenuamente, di accostare in una lunga sequenza continua ben trentasei figure diverse di autori, più o meno noti, ma reciprocamente assai lontani nel tempo e nello spazio.

Il risultato finale ci appare quindi un patchwork cronologico formato da riflessioni individuali e da dichiarazioni d’intenti, tutte tese a sottolineare le incredibili peculiarità dell’anarchist pride.

Ciò a scapito di qualcosa forse lievemente più importante, in un contesto enciclopedico: come ad esempio l’analisi delle condizioni politiche, sociali e materiali nelle quali i singoli autori maturarono le loro scelte di renitenza. Oppure la collocazione degli scritti prescelti all’interno dei rispettivi contesti storici (dalla Comune di Parigi in poi c’è l’imbarazzo della scelta) in termini di prassi che si fa teoria.

Perché in fin dei conti se vi è un pensiero ostile al banale campionario di opinioni, al catalogo di idee, così come al culto auto celebrativo e al mito delle epifanie facili è proprio quello anarchico. Che indirizzando la sua lotta principale contro tutte le Colonne d’Ercole erette da ogni forma di potere contemporaneo, si trova ad operare quasi sempre per decostruzione, riducendo ai minimi termini i significati dei valori posti al di sopra delle nostre teste, spezzandone l’aura fatalistica che li vorrebbe inevitabili o naturali, rivelandone ogni tratto metafisico come volgare conseguenza di meri rapporti di forza.  Salvo poi tentare di rovesciarli, questi rapporti.

Per questo tra gli scritti più importanti, intensi, appassionati e concreti, all’interno delle sezioni anarchia e anarchici, vi sono certamente:

Louise Michel (1830-1905)

Il Manifesto sull’educazione integrale, sottoscritto nel 1898 da alcuni dei più illustri pedagogisti anarchici, tra i quali spiccano Lev Tolstoj e la troppo dimenticata Louise Michel[1].
Un documento attualissimo, nel quale la scuola viene definita come l’anticamera della caserma. Contro di essa gli estensori intendono favorire l’attivismo costante degli studenti (alla faccia del Ritalin odierno) scongiurando ogni insegnamento che instilla l’odio cieco e criminale per i popoli che abitano al di là di un certo fiume, l’infatuazione stupida e irragionevole per la propria razza e il disprezzo per tutte le altre.

Errico Malatesta (1853-1932)

Il saggio L’Anarchia (1891) di Errico Malatesta, nel quale uno dei “padri” (brrr…) del pensiero anarchico riesce a illustrare con l’abilità di un vero divulgatore ogni aspetto saliente e basilare della sua filosofia[2], ma spingendosi poi ben oltre. A nove anni dal ventesimo secolo, infatti, Malatesta parla già di un mondo globalizzato, nel quale i mezzi di comunicazione, l’abitudine dei viaggi, la scienza, la letteratura, i commerci, le guerre stesse, hanno stretto e vanno sempre più stringendo l’umanità in un corpo solo […] L’abitante di Napoli è tanto più interessato alla bonifica dei fondaci della sua città, quanto al miglioramento delle condizioni igieniche delle popolazioni delle sponde del Gange, di dove gli viene il colera.

Camillo Berneri (1897 – 1937)

Giocato magistralmente sui registri della satira (auto)critica è invece Il cretinismo anarchico del sublime Camillo Berneri, intellettuale sopraffino la cui scarsa diffusione editoriale grida ancora oggi vendetta contro il culturame nostrano[3].
Nel 1935, solo due anni prima della sua ignominiosa uccisione da parte delle formazioni staliniste a Barcellona, Berneri ironizza amaramente: Quando in una riunione, mi capita di trovare il tipo che vuole fumare anche se l’ambiente è angusto e senza ventilazione, infischiandosene dei deboli di bronchi che sembrano in preda alla tosse canina, e quando questo tipo alle osservazioni, anche se cordiali, risponde rivendicando la “libertà dell’io”, ebbene, io che sono fumatore e per giunta un poco tolstoiano per carattere, vorrei avere i muscoli di un boxeur nero per far volare l’unico in questione fuori dal locale.

E poco dopo aggiunge: Se la libertà anarchica è la libertà che non viola quella altrui, il parlare due ore di seguito per dire delle fesserie costituisce una violazione della libertà del pubblico di non perdere il proprio tempo e di non annoiarsi mortalmente.

Isabel Paterson (1886-1961)

L’ultimo contributo che ritengo doveroso segnalare è eloquente fin dal titolo: L’operatore umanitario con la ghigliottina, scritto nel 1943 dalla giornalista statunitense Isabel Paterson. Che pur non essendo “anarchica” di fede[4] – o forse proprio grazie a questa mancanza di fede –  riesce a tracciare, nel solco di Henry David Thoreau, la più spietata rappresentazione del moderno “dispotismo filantropico”: i massacri commessi di tanto in tanto dai barbari che invadono regioni abitate, o i capricci crudeli di ben noti tiranni, non coprirebbero un decimo degli orrori perpetrati da governanti mossi da buone intenzioni.

E dato che siamo nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, la Paterson aggiunge acutamente: i russi nei campi di prigionia tedeschi e i tedeschi nei campi di prigionia russi stanno subendo una sorte nè peggiore, nè differente di quella che un gran numero dei loro compatrioti ha sopportato e sta sopportando per mano dei proprio governi, all’interno dei propri Paesi.

Il discorso si fa più complesso nella terza ed ultima sezione del volume, intitolata cumulativamente Individualismo – Mutualismo – Collettivismo – Comunismo.
La qualità degli scritti è qui determinata dalla necessità di definire in progress questi quattro concetti, individuandone le linee di confine quanto quelle di continuità.
Eppure, i limiti riscontrati nelle sezioni precedenti tendono ad affiorare nuovamente – magari solo stemperati dalla maggiore connotazione tecnica delle argomentazioni.

Curioso ed esemplare, invece, in questa parte conclusiva, lo scontro a distanza sulla visione della letteratura moderna da parte di due “mostri sacri” (doppio brrrr…) dell’anarchismo come Mikhail Bakunin e Pëtr Kropotkin.

Mikhail Bakunin (1814-1876)

Nel saggio Contro l’individualismo, per il collettivismo infatti, il furore critico del nobile  moralista Bakunin giunge fino alla condanna di alcuni dei maggiori scrittori francesi dell’800: questa letteratura creata dai Victor Hugo, i Dumas, i Balzac, i Jules Janin e tanti altri autori di libri e articoli sui giornali borghesi, che dal 1830 hanno inondato l’Europa, portando depravazione e risvegliando l’egoismo dei giovani di entrambi i sessi, e purtroppo anche del popolo. Prendete un qualsiasi romanzo: cosa ci trovate, oltre a dei grandi e falsi sentimenti, alle belle frasi? Sempre la stessa cosa. Un giovane è povero, incompreso, misconosciuto […] Vorrebbe vivere in un palazzo, mangiare tartufi, bere champagne […] Ci riesce attraverso sforzi eroici e avventure straordinarie, mentre tutti gli altri soccombono. Ecco l’eroe: puro individualismo.

Pëtr Kropotkin (1842-1921)

Al contrario, il più attento (ma sempre nobile, perché pure lui aristocratico) Kropotkin fa di un celebre protagonista della letteratura inglese il paradigma della mancanza di libertà innata nell’uomo: l’essere umano non è mai libero. Robinson Crusoe nella sua isola non era libero. Nel momento in cui ha cominciato a costruire la sua imbarcazione, a coltivare il suo orto o a mettere da parte le provviste per l’inverno, egli era già preso ed assorbito dal suo lavoro. Quando ha avuto la compagnia di un cane, e soprattutto dopo che ha incontrato Venerdì, non era più assolutamente libero […] Aveva degli obblighi, aveva da pensare all’interesse di altri, non era più quel perfetto individualista che talvolta ci aspettiamo di trovare.

Postilla finale:

Emma Goldman (1869-1940)

Credevo di aver letto quasi ogni sorta di avvertenza, raccomandazione o monito nelle introduzioni delle opere saggistiche a sfondo politico. Cose del tipo “maneggiare con cautela” o “attenzione, uso di termini espliciti” per esempio. Ma la considerazione riportata a pagina 15 in cui è specificato che l’antologia sarà indigesta anche a quanti si professano anarchici e pensano che attraverso comportamenti aggressivi, prepotenti e violenti  saranno in grado di diffondere le loro idee e convinzioni fa abbastanza sorridere. Tanto quanto la successiva definizione di tali anarchici come sciagura per l’autentica anarchia (!).

Al curatore sarebbe bastato rivedere le bozze del volume per accorgersi che poco più di cento pagine dopo, una certa Emma Goldman – non proprio una black bloc – scrive: Ma come può la persona comune sapere che la cosa più violenta che esiste nella società è l’ignoranza? Che il suo potere di distruzione è proprio ciò contro cui combattono gli anarchici?


[1]  Tra quanti la ricordano molto bene, c’è un certo Banksy. Che ha voluto dedicare alla grande anarchica francese l’imbarcazione da lui acquistata recentemente per il salvataggio dei migranti. Questo in memoria del fatto che dopo la Comune di Parigi, la Michel fu deportata in Nuova Caledonia, e nei suoi scritti l’esperienza di quella navigazione coatta riemerge costantemente.

[2] Lo stile elementare e semplice dell’esposizione malatestiana ci fa ricordare come mai Antonio Gramsci, nel suo ferocissimo attacco “Contro gli anarchici” comparso su L’Ordine Nuovo il 23 novembre 1921 lo definisse sprezzantemente “il prototipo del fanciullino lettore di romanzi polizieschi”.

[3]  Tra i pochissimi titoli ancora reperibili online, segnalo Mussolini grande attore. Scritti su razzismo, dittatura e psicologia delle masse (Edizioni Spartaco, 2006).

[4]  Fu una “libertaria conservatrice”, strenua oppositrice del New Deal e delle politiche di Roosevelt.