Richard Corben, Edgar Allan Poe, H.P. Lovecraft, L’antro dell’orrore, tr. Giuliano Cremaschi e Leonardo Rizzi, Panini Comics, pp. 224, euro 26,00 stampa
Un sottile legame, contorto ma innegabile, unisce a doppio filo Edgar Allan Poe, Howard Phillips Lovecraft (due tra gli autori più celebrati – e saccheggiati – dal mondo del fumetto) e Richard Corben (che di quel mondo è da più di cinquant’anni un assoluto protagonista); un’affinità tutta intellettuale, inesorabilmente postuma, che muove i suoi tentacoli dalla regione più oscura del fantastico, quel territorio dell’orrore, del macabro e dell’insolito di cui, in tempi diversi e con diversi mezzi, tutti e tre hanno contribuito a definire i contorni. Ma se Lovecraft guardava a Poe come al suo più illustre modello mentre firmava decine e decine di racconti destinati a essere pubblicati esclusivamente su modesti pulp magazine come Weird Tales, condividendo di fatto con il grande scrittore di Boston una ben scarsa fortuna letteraria in vita, su quello stesso genere di riviste (prima fra tutte Creepy, seguita da Eerie, 1984, Vampirella, ecc.) tutt’altro tipo di successo raccolgono, a partire dagli anni Settanta, le storie a fumetti di Corben, un’audace commistione di horror e grottesco tenuta insieme dal tratto corposo, quasi tridimensionale, dell’artista, talmente attento al dettaglio mimetico da toccare in non pochi casi punte sinistramente caricaturali.
Proprio come un omaggio allo stile unico di Corben va inteso il recente L’antro dell’orrore, ragguardevole volume pubblicato da Panini Comics che riunisce le due miniserie del 2006 e del 2008 con cui il fumettista statunitense celebra a sua volta rispettivamente l’opera di Poe e Lovecraft, imprescindibili punti di riferimento della sua poetica orrorifica; ragguardevole tanto per il grande formato scelto dall’editore, che permette di “entrare” nelle singole vignette e nell’architettura delle tavole nel modo migliore, godendo appieno della visionarietà e della grande densità grafica del disegno, così come di un uso della monocromia talmente consapevole e abile da coprire perfettamente con i suoi grigi la ricchezza di sfumature del colore (in genere riservato dall’artista alla sua produzione fantasy e fantascientifica), quanto per il valore stesso delle opere che raccoglie, una serie di riscritture fumettistiche – vera e propria summa dell’ultima fase del percorso artistico di Corben – in grado di riserbare anche al lettore più avvezzo a certe incursioni della nona arte nel campo della letteratura non poche sorprese.
La maggior parte dei lavori confluiti nel volume, innanzi tutto, non sono – come si sarebbe portati a pensare – adattamenti tratti dalla vastissima produzione in prosa dei due grandi maestri del fantastico, bensì reinterpretazioni piuttosto libere di alcuni loro testi poetici, scelta inusuale che garantisce a Corben (coadiuvato per quanto riguarda la sceneggiatura di diverse storie da Rich Margopoulos, altra firma di peso delle riviste a fumetti come Creepy) una certa libertà di movimento e una disinvoltura nell’affrontare l’opera dei due scrittori che tradisce in più punti una chiara intenzione dissacrante, un declinare divertito verso certi eccessi deformanti, da casa degli specchi, tipici del grottesco. Ecco che «la bella e dolce Eulalia» dell’omonima poesia di Poe è ridotta, dopo essere passata per le impudenti matite di Corben, a una squallida bambola gonfiabile, protagonista dell’ultima notte di passione di un povero derelitto, mentre l’aggraziato angelo della poesia “Israfel” viene scalzato dal perfetto stereotipo del gangster americano, con tanto di catene al collo e denti d’oro.
Anche quando a subire il processo di riscrittura sono i racconti, Corben preferisce ai testi più conosciuti, ai soliti “La caduta della casa degli Usher” (alla cui trasposizione, del resto, si era già dedicato nel 1984) e “Il richiamo di Cthulhu”, riproposti nel corso degli anni da stuoli di autori, una manciata di opere di gran lunga meno note, capolavori come “Il cuore rivelatore” e “Berenice” di Poe, o “La musica di Erich Zann” e “Arthur Jermyn” di Lovecraft, fortemente rappresentativi della produzione narrativa dei due, il cui mancato radicamento nell’immaginario del lettore assicura al fumettista, come per le poesie, ampio spazio di manovra nel suo lavoro di traduzione. La scelta di riportare, alla fine di ogni adattamento, il testo originale da cui è stato ispirato si rivela, da questo punto di vista, assolutamente funzionale a una più profonda comprensione non solo dei cambiamenti deliberatamente apportati da Corben, – non sempre del tutto convincenti, a dire il vero –, ma di tutti quegli espedienti, compromessi, strategici e necessari al passaggio dalla natura esclusivamente verbale della letteratura a quella ibrida, allo stesso tempo verbale e figurativa, che contraddistingue il linguaggio fumettistico. In tal senso, oltre che all’opera di Corben, ancora da riscoprire in Italia, il bel volume pubblicato da Panini Comics si direbbe dedicato, per riprendere il titolo della breve ricognizione storica firmata da Marco Ricompensa che significativamente lo chiude, più in generale all’adattamento come forma d’arte, a una pratica della riscrittura, colta e spregiudicata, che si delinea come la breccia ideale attraverso cui penetrare nei meccanismi rappresentativi del fumetto.