“Durante vent’anni, più e più volte, nelle occasioni più diverse, abbiamo visto la folla accalcarsi nelle piazze per ascoltare discorsi e applaudire. Queste adunate, come erano chiamate, non erano sempre e soltanto ottenute col ben noto espediente della cartolina. I giornali erano nel vero quando parlavano di manifestazioni spontanee della folla, di entusiasmo, di delirio e via dicendo. In questi ultimi giorni, con spontaneità certamente maggiore, la folla ha gremito altre piazze, non meno celebri e illustri di piazza Venezia. Non crediamo che ci siano a Roma due moltitudini ben distinte, una che applaudiva durante gli ultimi vent’anni e una, invece, che ha incominciato ad applaudire soltanto da venti giorni. Così siamo costretti a pensare che con qualche variazione si tratta sempre della stessa folla, oggi come ieri. Ora, è giunto il momento di dirlo, a noi le manifestazioni di piazza non ci piacciono affatto. La folla non ci piace perché siamo nemici di ogni demagogia, qualunque sia il suo colore politico”.
Alberto Moravia, Folla e demagoghi, Il Popolo di Roma, 25 agosto 1943
poi in Impegno controvoglia
Gli italiani non si dividono, come molti pensano, in furbi e fessi, ma sono allo stesso tempo tutti furbi e fessi, scriveva Indro Montanelli. Oggi parlare di italiani sta diventando sempre più anacronistico. Per il bene e per il male si è sempre disposti a cadere in facili retoriche, le stesse che celano i crimini più efferati. Non c’è grande voglia di vivere. Questi crimini sono in fondo la misura della nostra ipocrisia, del nostro imperturbabile domare la cresta dell’onda dell’attualità, qualsiasi cosa accada, e, al netto di noi, ciò che rivela le contraddizioni del nostro intimo, proprio come nel caso di Guido Piovene, in cui l’avere sempre guardato il mondo dalla stessa angolazione non ha fatto di lui un idealista, anzi. Tra il moralismo della forca e il più sereno qualunquismo c’è quindi uno spazio inesistente nel quale si agita un certo eclettismo, la capacità di trasformarsi, il saper cadere sempre in piedi, quello strano idealismo capace di non compromettersi mai. Questo tipo di cultura si presenta in svariate vesti, e qualunque siano le sue fogge, ha una trama comune: non serve avere un’etica, è sufficiente pelo sullo stomaco. Piovene ha pagato questa legge, pur trascinato dagli eventi, pur non volendo. Sì, perché lui non era di certo un martire, e si sa, chi ha bisogno di martiri ha sempre qualcosa da nascondere.
Fare le pulci a Piovene, alla sua storia esemplare, è in fondo una maniera di fare le pulci al presente, a questa storia italiana ricca di regioni inesplorate. Il racconto inizia da lontano.
“La mia famiglia era apolitica e i suoi principi si potevano così riassumere: ognuno pensi come vuole a patto di non compromettere né se stesso né gli altri e di non superare i limiti del ‘come gli eventi necessitano’. Ne derivava per me una curiosa scala morale. A un gradino piuttosto basso era il fascista vero, cafone ed esaltato. A un gradino ancora più basso l’antifascista aperto, cafone ed esaltato anche lui, ma con un’aggravante: era un illuso, un presuntuoso. Al gradino più alto stava chi non era fascista, ma fingeva di esserlo, con moderazione. L’ ideale era fingersi fascista e cattolico, tenendo il cattolicesimo in serbo come una scappatoia. Auguro ai giovani di oggi di non avere mai il ricordo di pasti silenziosi, di labbra strette, se hanno parlato una volta secondo coscienza.”
Il giovane Piovene, laureato in filosofia all’Università Statale di Milano con una tesi su Giambattista Vico, riconduce ai tempi dell’università il suo primo dissidio: “Ero di un antifascismo congenito, fondato su motivi giusti e, in parte, su motivi falsi. Provavo per gli iscritti al Guf (Gruppi universitari fascisti, N.d.R.) a cui ancora non era necessario associarsi, uno schifo anche fisico. Avevamo formato un gruppetto di dissidenti. L’episodica è inutile. Per quanto mi riguarda, culminò all’ultimo anno in due bastonature, una all’Università e un’altra per la strada, per aver difeso il mio professore, Borgese, che una squadra del Guf aveva insultato nell’aula come rinunciatario della Dalmazia. Con seguito d’interrogatori in polizia, alla sede della milizia, e con l’ostilità sprezzante del Rettore. Da allora fui, per molti anni, un antifascista bollato […] Di professori d’animo antifascista ne ho conosciuto qualcuno. La maggior parte coltivava la comoda opinione che l’antifascismo si fa facendo cultura. Ossia leggendo Vico, Descartes, Kant, Goethe. Un po’ di liberalismo filosofico-letterario, molta ‘morale eterna’. Giacché anche quei professori avevano i loro guai, temendo di essere compromessi in qualche giovanile atto esaltato degli allievi. La loro maniera di intendere una opposizione politica appariva già inefficace anche a un giovane borghese di trent’anni fa.»
Piovene dopo la laurea ricorda di essere entrato nell’Ambrosiano quasi da estraneo. Per chi era laureato in filosofia, all’epoca, vi erano solo due strade: l’insegnamento o il giornalismo. L’Ambrosiano non era inizialmente un giornale di regime, poi il fondatore, lo scrittore futurista Umberto Notari, fu costretto a vendere la maggioranza delle azioni a un gruppo finanziario con a capo Riccardo Gualino e da quel momento L’Ambrosiano non fu più lo stesso. Piovene non era stato assunto, ma il giornale gli aveva consentito di pubblicare degli articoli. Erano articoli interamente apolitici. Molti colleghi presero subito a invidiare questo ‘letteratucolo’ che non adempiva alla professione. Piovene ebbe la possibilità di restare senza essere iscritto al sindacato, a patto che chiedesse la tessera del Partito. Piovene così la chiese, ma gli fu rifiutata. Il direttore del giornale riuscì a farlo iscrivere al sindacato ottenendo l’indulgenza di un alto gerarca. Piovene ricorda le prodezze di cui fu protagonista su quel giornale: articoli semi-filosofici, novelle, varietà, descrizioni di una fabbrica di gelati, laudi all’architettura moderna, denunce di plagi presenti nei libri di alti prelati. Questa fronda purtroppo esigeva una contropartita: il finto zelo in materia politica. “L’ingenuo stratagemma era di presentarsi come veri fascisti, accusando i fascisti di esserlo meno di noi, per esempio perché non erano modernisti in pittura, in architettura o in musica.” In fondo è uno stratagemma che in politica si conosce ancora oggi.
Piovene arriva così alle porte del Corriere della Sera. È il 1935. Per un grande giornale non si poteva lavorare senza tessera del Partito, e così il direttore in persona andò a Roma, in alto loco, a prenderla per Piovene che ne era ancora sprovvisto.
“Il fascismo era disposto a imbarcare un po’ tutti. Nel tempo stesso si stringevano i freni; il clima era di guerra. Era illusorio di essere più defilati perché si apparteneva alla stampa borghese. L’alternativa era la stampa dei veri credenti, forse al margine della crisi, ma poco propensi a mostrarlo, anzi, talvolta inviperiti dalle loro inquietudini. L’unico vantaggio offerto dalla stampa borghese non era più di scrivere cose diverse, ma il malinconico sollievo dell’ipocrisia. In periodo di tirannia, se non si è riusciti a resistere, l’ipocrisia diventa un sale amaro che rende il servire più sapido, più accettabile, più disgustoso. Vi era anche qualche fanatico-opportunista, e il fanatismo è sempre un opportunismo buio e impazzito.”
A un certo punto, purtroppo, anche il Corriere fu investito dal clima. Piovene ricorda il disgusto e l’imbarazzo di alcuni articoli, mentre iniziava a prendere in considerazione che una doppiezza psicologica fosse in fondo gestibile. La guerra scoppiò, il fascismo divenne marcio. Piovene si trovò a un passo dal baratro, già precedentemente convocato da caserme e gabinetti, per aver denunciato in un articolo gli affari di alcuni imprenditori edili.
“Gli articoli più biasimevoli sono stati scritti a richiesta di chi mi voleva proteggere, come salvataggi in extremis.” Sono questi i tempi degli articoli di Piovene sul libro di prose di Mussolini, la recensione al libello antisemita di Telesio Interlandi. Piovene ricorda con amarezza quel periodo: “Malafede costante, incertezza perpetua, padroni mai contenti e mai convinti. Ho scritto quegli articoli e non ho mai né parlato con un gerarca, né entrato in un ministero. Disprezzavo me stesso, mi tenevo a distanza da me. La mia illusione era di trovare un compenso disprezzando e tenendo a distanza anche loro […] nascevano così i paragoni tra Mussolini e Shakespeare, oppure Pascal; ci pareva che meno sarebbe stato peggio, si voleva sfuggire interamente ai limiti del verosimile.”
E arriva la confessione bruciante: “In questi casi chi subisce è poco meno colpevole di chi l’opprime. Questa deposizione non mi è favorevole. Rivela, in un periodo della mia vita, una mancanza di coraggio, un’ambizione inquieta, inetta e incapace di veder lontano e una smania di restare a galla a ogni costo. Non so cosa avrei fatto senza il favore degli eventi, la fortuna imprevista di una sconfitta catastrofica.”
La catastrofe venne. Venne l’8 settembre. Ci furono i patrioti e ci furono i socialisti, i comunisti, gli opportunisti, i disertori e i galeotti, i cattolici, i veri rivoluzionari e i mestieranti della politica, i professionisti della violenza, i liberali, i monarchici, gli improvvisati, i repubblicani, gli intellettuali di sinistra e gli intellettuali di destra, i fascisti disillusi, i contadini, gli operai, gente che ritornava dalla macchia. Si cercava innanzitutto di capire di chi ci si poteva fidare, chi era il nemico, e dopo, semmai, a ricostruire la democrazia. Furono tempi di giustizie sommarie. Fu il mortificante strazio di una guerra civile nata dalle ceneri di una dittatura all’italiana che era caduta e che si era sovrapposta nel frattempo a una guerriglia di liberazione nazionale.
Cosa fu in quei giorni di Piovene, che sin da subito fu un fascista in malafede? Piovene già subodorava la fine, tanto che in un suo articolo sul Corriere del 5 agosto, dal titolo “La parola «io»” si legge una sorta di bilancio del Ventennio: “Esclusi dalla cosa pubblica, costretti a non preoccuparsi di niente che non fosse se stessi, il proprio pane e la propria salvezza, gli animi dei più si erano andati stringendo in una specie di precoce senilità e a non vedere altro mondo fuor della propria tavola e del proprio letto. Gli scrittori hanno seguito il medesimo corso.”
Piovene giunge a Roma nell’ottobre del 1943. C’è una casa che diventa un ostello per i rifugiati, è in Via dell’Oca. Si ritrovarono gomito a gomito prigionieri inglesi, canadesi, politici e personalità quali Eugenio Colorni, Ennio Flaiano, insieme a evasi di prigione, giornalisti ricercati, ufficiali repubblichini, emissari di bande, come ricordato da Carlo Bernari, attraverso Cronaca del crudo inverno, in “Il secondo Risorgimento d’Italia”, per il Centro Editoriale d’Iniziativa, pubblicato nel 1955.
In questi appartamenti si incontrava presumibilmente, il Movimento Comunista d’Italia, formazione oltranzista a cui aderì per un breve periodo lo stesso Piovene. Nacque il giornale clandestino Azione. Piovene si dimostrò tra i più attivi, andava in bicicletta a diffondere i fogli nei pochi cantieri edili rimasti attivi alla periferia di Roma, scrisse numerosi articoli senza paura di compromettersi.
Piovene in seguito scrive su Il Tempo e, come leggiamo l’11 luglio 1944 in “Sinistra e destra nell’arte”: “Ognuno di noi si accorge di non amare tutto quello che aveva fatto credere, o forse credeva di amare. Non era, in molti casi, malafede piena, ma era una malafede che consiste nel presentare come consenso profondo un consenso condizionato, occasionale […] non credo che l’opera d’arte serva ad addolcire la vita, ma se mai, ad amareggiarla; ci deve condurre a comprometterci nel modo più radicale […] di sinistra sono per me gli artisti che, anziché prendere le mosse da una realtà già accettata, partono da un esame critico della realtà: e la cui arte riforma così nascendo le condizioni stesse della sua nascita. Scrittore di destra è quello che crede nella sintassi di sentimenti acquisita, quello che dice amore e odio, verità e menzogna, senza dubbio o sospetto, convinto che siano cose ferme.”
Piovene tiene una rubrica, Caratteri, per il giornale Città. Il primo contributo è “Amanti in malafede” del giorno 11 novembre ’44: “La malafede si scopre quando un movimento fantastico tenta di travestirsi come una convinzione logica. La malafede si rivela quando una simpatia parziale, mobile, fortuita, si trasforma in adesione totale.”
Piovene, memore della sciagurata dittatura e dei germi che la costituirono, si spinge oltre in “Gli interprovinciali” del 23 novembre 1944: “Vi sono uomini, specie tra gli intellettuali, che coltivano dentro di sé la mancanza di chiarezza con la stessa cura con cui i veri pensatori coltivano la precisione del pensiero. Il loro fine segreto è utilitario. Quella mancanza di chiarezza consente loro di seguire la moda, abbandonarsi sempre alla corrente. Sono uomini per i quali la rivoluzione è un’entità metafisica, un’idea platonica. Le rivoluzioni non sono mai in questa rivoluzione […] Sono provinciali d’origine, di educazione, di gusto. Ma odiano il provincialismo borghese. La loro è una provincialità indefinita, inodore, sterilizzata. È una provincia metafisica, su cui si adagia una sorta di internazionalismo, altrettanto inconcreto, insipido ed altrettanto metafisico. Non sono provinciali, né internazionali. Sono gli interprovinciali. Sono sempre gli stessi. Sempre i più fervidi. Sempre i più sensibili a tutto. Sempre i più amici dei giovani. Muoiono a novanta anni esaltando un lattante. I metafisici della rivoluzione.”
Un grandioso ricordo fu per Piovene la Resistenza, un evento liberatorio, come egli stesso scrisse, un’occasione tragica ma agognata. “Per me la Resistenza fu riparare almeno in parte agli errori pubblici con atti di servizio pubblico, di stabilire con le proprie azioni un ‘mai più’. Ma era in fondo ‘moralistico’ quel desiderio di riscatto? Non tanto. Esso si frantumava in una lotta quotidiana, concreta contro mille pericoli, coincideva con la difesa della pelle […] In quel ritrovarci lì, stanchi, impauriti, indomiti, attorno al tavolo ansiosi di cogliere le parole di radio Londra, eravamo tutti insieme, operai e borghesi, grandi e piccoli, assimilati anche dal nostro vestire dimesso figlio della contingenza. In quella scena si realizzava già vivente il palpito di una società senza classi.”
Arriva la fine della Resistenza. Lo scrittore vicentino ha possibilità di fare un bilancio, rielaborare il tutto, soprattutto considerare la sua contemporaneità in base alla terribile esperienza che ha vissuto: “Io non sono uno di quelli che vedono nel fascismo un fatto quasi incidentale. Esso ha motivi ben profondi nei vizi della nostra storia. Ma adesso era diventato una soldataglia straniera in un paese che l’odiava. Questo ci faceva riflettere che la dittatura fascista, qualunque ne sia la radice, diventa sempre un regime di occupazione, in cui l’indipendenza nazionale si perde oltre a quella privata […] Ho detto tutto questo sulla Resistenza soprattutto per illuminare un momento di decisione estrema nella rottura col passato. È però retorico fissarsi oggi sui mesi o anni della Resistenza attribuendo ad essa l’esclusiva dell’urto con la realtà risanatrice. È perfino un po’ troppo comodo, un modo di lavarsene ancora una volta le mani. Come ci siamo uniti, ci siamo anche ridivisi. La vita politica non si ferma, impone sempre nuove scelte, e anche la Resistenza, come l’antifascismo degli anni prebellici, si convalida solo con le scelte venute dopo. Capisco che ad alcuni, antifascisti autentici, dia quasi fastidio parlarne. Vi è stato un dopo pieno di delusioni e di stanchezze, in cui molti, io compreso, sono stati tentati ad abbandonarsi ancora alla forza di inerzia […] Un urto coi fatti non meno importante della Resistenza è avvenuto per me nei giorni che ho vissuto sul posto, in cui De Gaulle è salito al potere con la complicità di una masnada di violenti. Ho visto lo sfacelo della democrazia francese, il contegno in gran parte equivoco degli intellettuali; nello sfondo, la guerra d’Algeria, il neorazzismo, le torture, il ritorno delle SS dall’interno in suppurazione di una civiltà colta che aveva concorso a formarmi e forse anche ad illudermi. Da allora ho preso le mie posizioni recenti […] Chi ha la coda di paglia è sospettoso, un po’ allarmistico; cane scottato, il proverbio ci insegna, teme anche l’acqua fredda.”
E siamo arrivati alla fine di una realtà paradossale e concreta insieme: alcune battaglie si vincono o si perdono solo per merito o demerito di tutti. L’uomo senza morale ci ha rivelato l’inganno. Qual è la nostra battaglia oggi? “Il mondo tecnologico che ci sta avviluppando può far perdere l’anima quanto il fascismo e forse più. Senza provocare le rese, le menzogne evidenti di cui ci si sente in colpa, né suscitare le rabbie che fanno soffrire, ma accompagnando ogni morso con l’anestesia. Con la coscienza a posto, anzi con l’illusione di progredire. Può diventare quell’ inferno indolore del quale vedo sorgere intorno i modelli piloti.”
Bibliografia:
Guido Piovene, La coda di paglia, Baldini & Castoldi, 1962
Marcello Ciocchetti, Percorsi Paralleli. Moravia e Piovene tra giornali e riviste del dopoguerra, Metauro, 2010