Quattro personaggi che appartengono agli orizzonti temporali e ideologici della modernità che ha prodotto la Seconda rivoluzione industriale; quattro percorsi di vita diversi tra di loro che condividono però una scelta comune: quella di vivere un periodo della propria vita in una capanna autocostruita per cercare e per riappropriarsi della semplicità perduta.
L’ultimo saggio del filosofo Leonardo Caffo si intitola proprio Quattro capanne o della semplicità e analizza il ritiro nella natura dello scrittore, poeta e filosofo americano Henry David Thoreau; del matematico e terrorista statunitense Theodor Kaczynsky, soprannominato poi Unabomber; dell’architetto, urbanista, pittore e designer svizzero Le Corbusier; del filosofo, ingegnere e logico austriaco Ludwig Wittgenstein.
Tutti questi personaggi abbandonano temporaneamente la società e si costruiscono quattro architetture semplici e isolate, perse nella natura, per viverci chi un breve periodo (Thoreau dal 1845 al 1847), chi un lungo periodo (Kaczynsky dal 1971 alla sua cattura nel 1996; Le Corbusier dal 1952 al 1965, anno della sua morte in mare proprio davanti al Cabanon), chi in modo discontinuo (Wittgentein nel fiordo norvegese di Lustra, a partire dal 1914, dopo l’abbandono dell’Università di Cambridge).
Il gesto di Thoreau è in un certo senso aurorale. Agli albori dell’industrializzazione la sua capanna è un gesto di resistenza, è il ritorno allo stato di natura dal quale la società si sta progressivamente, e irrimediabilmente, allontanando. Dice Caffo: “La società verso cui Thoreau manifestava dissenso e opposizione era una società che aveva cominciato a fare del nostro corpo un rimosso: e allora il freddo, la fatica, la durezza del luogo che Thoreau si era autoimposto agivano come una traccia, come una denuncia di questa resistenza.”
Kaczynsky, un secolo dopo, porta alle estreme conseguenze questa critica della sempre più tecnologica società industriale. Abbandona, infatti, la docenza di matematica all’Università di Berkeley e dal suo ritiro eremitico, che assume i connotati di una scomparsa, invierà tra il 1978 e il 1995 sedici bombe, indirizzate per la maggior parte a docenti con ruolo di rilievo nella rivoluzione tecnologica, provocando la morte di tre persone e il ferimento di ventitré. Questo l’incipit del suo manifesto La società industriale e il suo futuro che l’ex-docente di matematica chiede al New York Times di pubblicare, promettendo la fine degli attentati: “La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state disastrose per la razza umana.” Caffo, senza giustificare la deriva terroristica di Kaczynsky, esplora le intuizioni del suo pensiero: la ricerca di una semplicità di vita non solo per se stesso, come nel caso di Thoreau, ma per l’umanità intera; non solo in quanto pausa dalla società (Thoreau), ma come totale isolamento. Si radicalizza anche l’idea di semplicità: non più solo rinuncia ai beni materiali e recupero della dimensione corporale (Thoreau), ma anche autonomia totale che diventa sinonimo di felicità. Non a caso l’agente del FBI che cattura Kaczynsky gli dice di invidiare molto la sua vita nella capanna.
Diverso il caso di Le Corbusier: ha già 64 anni quando, nel dicembre del 1951, in una trattoria della Costa Azzurra, disegna su un tavolo il progetto del Cabanon, una capanna sul mare pensata come regalo di compleanno per la moglie e che realizzerà l’anno successivo. Non è più il gesto di rivolta dei due precedenti ventenni, è il punto d’arrivo di un uomo con una carriera costellata di successi e dalla fama mondiale. Osserva l’autore: “Le Corbusier ha già sessantaquattro anni e la sua esistenza, come il suo progetto, è ormai compiuta: la semplicità che emergerà in questa terza immagine di una vita possibile non è una strategia di fuga, ma di uscita.” Caffo legge la creazione di questa capanna come il ritorno alla natura di un uomo che con la sua architettura razionalista ha attraversato tutte le potenzialità dell’artificiale. Non a caso Le Corbusier cura più lo spazio esterno che quello interno, installando una tettoia sulla parte est del Cabanon, sotto la quale trascorre la maggioranza della giornata.
Infine, uno dei grandi maestri di Caffo: Wittgenstein. Se le prime due capanne sono la dimostrazione di un possibile cambiamento, la terza la delineazione di un riposo, quest’ultima è secondo l’autore “un bosco interiore”, un atteggiamento nei confronti delle cose del mondo che accadono, un’immagine di rassegnazione attiva. La capanna di Wittgenstein è lo specchio della sua filosofia, “un sentiero che gira attorno e che resta fuori”, come diceva il pensatore austriaco. Essa incarna l’idea di semplicità intesa come postura di vita, come atteggiamento di aderenza al reale all’insegna della disillusione (“Il senso del mondo deve essere fuori di esso” Tractatus logicus-philosophicus, 6.41) e del misticismo (“Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere” Tractatus logicus-philosophicus,7). La capanna di Wittgenstein diventa così la realizzazione concreta di quell’uscita dall’antropocentrismo che i suoi tre predecessori hanno avviato.
Ho apprezzato questo libro per due motivi: l’idea geniale di fondo di leggere il percorso della Modernità industriale attraverso forme alternative dell’abitare e il continuo richiamo a una visione performativa della filosofia, per cui essa non si deve tradurre solo in pensiero, ma anche in pratica di vita. Invece, i continui richiami all’esperienza personale dell’autore frammentano e appesantiscono la lettura, con la citazione di diversi ricordi di vita che spaziano dall’affettivo, al lavorativo e al ludico. Sicuramente Caffo condivide l’idea deriddiana dell’importanza dell’autobiografia per la filosofia, ma le foto delle sue letterine infantili a Babbo Natale o delle sue partite di pallone sulle spiagge indonesiane con relative rievocazioni sortiscono l’effetto contrario da quello auspicato.
Andava poi sviluppata di più l’idea filosofica di precarietà sottesa all’essenza stessa di queste capanne così diverse tra loro, quasi che l’uscita dall’umano si possa dare solo in forma effimera.
Questo saggio di Caffo appartiene alla nuova collana Terra dell’editore Nottetempo ed è anche un progetto che unisce filosofia e architettura. In collaborazione con la piattaforma di ricerca Waiting Posthuman Studio, che indaga le connessioni tra filosofia, arte e architettura, e con la piattaforma Landscape Choreography, che unisce artisti, università, enti locali e gruppi cittadini per ripensare lo spazio urbano, è stata, infatti, costruita una vera e propria capanna all’interno di un bosco della Brianza. La capanna è stata realizzata da Ebony Carpentry, una cooperativa di profughi e di richiedenti asilo del Ghana. Al libro sono allegate le istruzioni di montaggio di questa capanna.