Due accattoni, Koppël-Bar e Jäckele-Narr, miseri intrattenitori di strada, girano per le strade del ghetto di Praga. È così che scoprono che Blumëlein, la dolce ragazzina che tanto apprezzava le loro esibizioni, è morta, come tanti altri bambini vittime della peste che imperversa nel ghetto. Il loro dolore è profondo e vivo come il sorriso della bambina di soli cinque anni. Si fermano e si interrogano sul perché una bimba tanto piccola debba morire, ma Koppël-Bar ricorda all’amico che “Quando la morte va al mercato, compra di tutto […]. Niente per lei è troppo piccolo, troppo poco”. Alla fine però devono continuare a cercare di sbarcare il lunario, e lo fanno racimolando monete lasciate sulle lapidi del cimitero, illuminate da strani bagliori che inizialmente scambiano per i lumi di una candela. Ma i bagliori sono fantasmi dei bambini morti recentemente che non riescono a continuare il loro viaggio nella vita eterna. È un portento da interpretare, un arcano che solo il sommo rabbino Löw può risolvere, e lo deve fare in fretta perché la peste non è una semplice epidemia, ma un flagello mandato da Dio. Qualcuno nel ghetto ha peccato.
È così che inizia questo strano e bellissimo libro, quasi impossibile da classificare. Il primo elemento di originalità è nella struttura stessa. Potrebbe essere chiamata una raccolta di racconti, ma i racconti hanno ambientazione, elementi tematici e personaggi ricorrenti che li legano così strettamente da acquisire il sapore di un romanzo. Come gli ebrei del ghetto aperto di Praga, la narrazione vaga dentro e fuori dal quartiere ebraico, gira per locande e piazze, entra nei saloni dell’aristocrazia, sale perfino le scale del palazzo reale per entrare nella camera da letto dell’imperatore Rodolfo II. È un carosello impressionate di personaggi ridicoli e inquietanti, e di un’ambiguità molto moderna, che inizia proprio da Koppël-Bar e Jäckele-Narr, miseri e ridicoli, eppure capaci di grande commozione e pensieri sconcertanti che ricordano quelli di coppie di personaggi del teatro di Beckett come Nail e Ham o Didi e Gogo. C’è Rodolfo II, mecenate ansioso e paranoico, sovrano visionario e inadeguato, perseguitato dalla paura di suo fratello Mattia. C’è il suo furbo cameriere Philipp Lang, alla continua caccia di soldi per una corte sempre sull’orlo della bancarotta. C’è la bella e tragica Esther e il suo ricco marito Mordechai Meisl, che trasforma in oro ogni cosa che tocca, perseguitato da una grande fortuna e da grandi sfortune. E poi ci sono giullari, nobilotti slavi, alchimisti, eretici utraquisti, ribelli boemi. E una Praga a cavallo fra la fine del 1500 e l’inizio del 1600, un mondo intero ormai scomparso, come il ghetto nell’ultimo racconto, e ricostruito da Leo Perutz nel resto del romanzo a forza di piccoli frammenti fatti di storie. È una ricostruzione storico-onirica di una città unica, popolata da personaggi insoliti e singolari, la maggior parte dei quali sono realmente esistiti.
Perutz doveva sentire fortemente la nostalgia per la sua Praga, lasciata da ragazzo, quando si è trasferito in Austria. Forse è proprio la vicinanza dell’anima, assieme alla lontananza fisica, ad avergli consentito di creare questo affascinante universo esistito e reale che pure dà la sensazione di essere fantastico. Anche questo è un elemento di originalità e un tratto distintivo della scrittura di Perutz, che è stato chiamato dal critico Franz Rottensteiner “indubbiamente il migliore autore fantastico del suo tempo”. Lo stile particolare di Perutz (descritto dall’autore Friedrich Torberg, come “il risultato di un faux pas di Agatha Christie e Franz Kafka”) ha attirato l’attenzione di autori famosissimi e molto diversi fra loro come Ian Fleming, Robert Musil e Jorge Luis Borges.