Questo bel volume dedicato alla produzione letteraria di Giorgio de Chirico. che finalmente viene presentato al grande pubblico come un grande scrittore, rimane impresso anzitutto per la copertina: riproduce uno dei dipinti più celebri del Pictor Opitimus, il Ritratto di Guillame Apollinaire, dell’estate 1914, esposto al Centre Pompidou di Parigi. Questo quadro viene anche chiamato il ritratto premonitore, e dimostra come spesso la pittura di de Chirico sia riuscita, nei suoi periodi migliori, ad anticipare le tendenze e gli eventi futuri. In questo quadro infatti de Chirico profetizzò l’incidente durante il quale il suo amico Guillame Apollinaire rimase ferito alla tempia da una scheggia di granata mentre era al fronte durante la Prima guerra mondiale, nel 1916. Si tratta di un ritratto che – nel più puro stile dechirichiano – da un lato trasforma Apollinaire in una sorta di monumento, ritraendolo sotto forma di un busto classico, dall’altro esprime la sua modernità – anzi, la sua postmodernità – ritraendo questo busto marmoreo con degli occhiali da sole. Sullo sfondo è riprodotta la silhouette del poeta con il bersaglio posto esattamente nel punto in cui qualche anno dopo si conficcherà la scheggia. Un ennesimo esempio di realtà che imita l’arte, come diceva Oscar Wilde.
Il titolo del volume riprende un altro famoso dipinto del Maestro di Volos, La casa del poeta, del 1918, che si trova esposto presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Il volume omonimo a cura di Andrea Cortellessa, quanto mai interessante e necessario per apprezzare pienamente la poesia di de Chirico, si inserisce pienamente in quella che è ormai un filone critico consolidato che prende spunto da alcuni inediti pubblicati dalla rivista Metafisica negli ultimi anni. Ricordiamo in particolare il numero 7/8 della rivista, nel quale sono state pubblicate nel 2008 Tutte le poesie. Edite e inedite, a cura di Paolo Picozza, cui è affidata l’Introduzione generale al volume. A riprova della assoluta fedeltà – per così dire – all’ortodossia dechirichiana, l’opera è stata realizzata in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico e segue dunque quelli che ormai sono alcuni capisaldi della critica sul Grande Metafisico, compresa la crescente attenzione con la quale viene studiata e analizzata negli ultimi anni la sua opera letteraria. L’operazione compiuta da Andrea Cortellessa fa uscire finalmente la produzione letteraria di de Chirico dal ristretto ambito delle riviste specialistiche e dei pochi eletti che conoscevano già queste poesie del grande pittore, e colma certamente un vuoto che impediva a molti lettori di poter apprezzare pienamente lo stile particolare del de Chirico poeta, una vera e propria “scrittura di sogni”, come scrisse in una sua famosa recensione Ardengo Soffici a proposito della sua pittura.
Nell’Introduzione di Cortellessa si ribadisce l’influsso determinante che l’ambiente culturale francese ha avuto sul giovane de Chirico, anche dal punto di vista letterario, tanto che moltissime di queste poesie, poemi in prosa e divagazioni poetiche, sono stati scritti prima in francese, poi tradotti e riproposti successivamente dallo stesso autore – anche a distanza di molti anni – ogni qual volta riceveva una richiesta di pubblicare qualche suo testo da parte di varie riviste d’arte o letterarie. Si tratta di un procedimento, se si vuole, molto simile a quello adottato dal de Chirico pittore: cioè quello di andare a ripescare la sua maniera precedente, i quadri della sua fase Metafisica – quelli che avevano le quotazioni più alte – riproponendoli e riproducendoli nella sua fase cosiddetta Neometafisica, senza farsi alcuno scrupolo di retrodatarli. De Chirico accentuò così tanto questa tendenza alla rivisitazione dei propri quadri più celebri, da trasformarsi negli ultimi anni della sua vita nel falsario di se stesso. La logica conseguenza di questo atteggiamento tipico del postmodernismo è la riproduzione meccanica dell’opera d’arte tramite la tecnica della serigrafia operata da Andy Warhol, che non a caso fu un grande ammiratore di de Chirico e ne riprodusse negli anni Settanta e Ottanta alcune sue opere fondamentali, come Le Muse inquietanti (1917), che lo stesso de Chirico aveva riprodotto decine di volte. Nel libro è riprodotta infatti una celebre foto del 1972, scattata a New York, che ritrae de Chirico insieme a Warhol, in una sorta di passaggio del testimone tra il Grande Metafisico e il genio della Pop Art.
De Chirico è postmoderno anche sotto un altro punto di vista: la sua pittura riesce ad anticipare il futuro e allo stesso tempo lo ha già trasformato in antichità, raffigurando il pittore stesso come già museificato, inserito nella Tradizione e nel canone della pittura, trasformato in un monumento, in una statua. È rimasto celebre un suo doppio Autoritratto del 1922 nel quale de Chirico si ritrae a sinistra come statua e a destra come essere umano, e un celebre Autoritratto del 1924 in cui il pittore appare ancora umano in volto, mentre il braccio si è già trasformato in una statua. Qualcuno a dire il vero ha interpretato questo Autoritratto del 1924 come se descrivesse il processo inverso, la trasformazione della statua in un uomo in carne e ossa; ma noi siamo convinti che in realtà sia raffigurato il passaggio dal de Chirico in carne e ossa al de Chirico eterno, il Pictor Optimus, il Pictor Classicus, la cui opera verrà tramandata nei secoli proprio come le statue dell’antichità classica greca. Si tratta di quel “classicismo impossibile” di de Chirico che è stato più volte sottolineato da vari studiosi.
Per quanto riguarda invece il de Chirico scrittore, pur tributando il dovuto riconoscimento alla “francesità” di de Chirico, come fa giustamente Cortellessa, è necessario anche ricordare che l’opera di Giorgio de Chirico, sia letteraria che pittorica, sarebbe inconcepibile senza quelle particolari atmosfere sospese tipiche dell’architettura e delle città italiane, in particolare della Metafisica Torino, particolarmente amata dal Nostro anche perché fu teatro dell’insorgere della follia di Friedrich Nietzsche, il filosofo più amato da de Chirico, e a distanza di pochi mesi dalla sua nascita, nel 1888. Ma siamo proprio sicuri che de Chirico – o quantomeno il de Chirico scrittore – sia “un autore più francese che italiano”, come scrive Cortellessa? E se de Chirico avesse utilizzato invece il francese proprio per sfuggire all’asfittico provincialismo della cultura italiana dell’epoca, a un clima culturale che aveva saputo soltanto stigmatizzare la sua opera classificandola come “letteratura” e criticare aspramente la sua freddezza nei confronti del fascismo? Da questo punto di vista, lo scrivere in francese per poi ritradursi in italiano, come fece l’autore di Ebdòmero, non sarebbe altro che un modo per sfuggire all’inguaribile provincialismo italiano e per rinnovare profondamente i procedimenti stilistici e la lingua ormai logora, gonfia di retorica e roboante dell’Italietta degli anni Dieci e poi del Ventennio, che all’epoca oltretutto non riuscì a cogliere la profonda originalità del de Chirico metafisico, costringendo il Nostro a rifugiarsi di nuovo a Parigi, “la città per eccellenza dell’arte e dell’intelletto.” dove “ogni uomo, degno del nome d’artista deve pretendere il riconoscimento del suo valore.” (Vale Lutetia). Dunque sarebbe sbagliato, crediamo, ridurre de Chirico a un autore più francese che italiano, anche perché si potrebbe allora aggiungere a queste varie tipologie anche il de Chirico greco, il de Chirico tedesco, e così via. L’adozione della lingua francese, sotto questo profilo, non sarebbe che l’ennesimo espediente per ottenere un effetto di straniamento, non molto dissimile dall’effetto prodotto dalla statua con gli occhiali da sole. Scrivendo in una lingua che non è la sua lingua madre (lo stesso Cortellessa si premura di aggiungere che de Chirico non era certo di madrelingua francese, e che, per le sue particolari vicende biografiche, lo si può annoverare tra “quegli scrittori ‘nati altrove’ che non hanno lingua madre”), de Chirico mira a trovare nuove sonorità, nuove e originali costruzioni sintattiche, nuovi strumenti per esprimere lo straniamento tipico della “scrittura di sogni” di stampo surrealista, con una capacità di ricreare l’atmosfera onirica che gli valse l’ammirazione sconfinata dei Surrealisti all’indomani della pubblicazione di quello che può a buon diritto essere considerato il più grande romanzo surrealista, l’Ebdòmero (La Nave di Teseo, 2019), del 1929. Scrivere in una lingua che non è la propria è, in fondo, il modo migliore per rinnovare quella stessa lingua e anche la propria lingua primaria, per scrivere in una lingua che, una volta ritradotta nella propria lingua primaria, risulterà tanto più nuova quanto più è artificiale, dunque Metafisica. Di conseguenza, la lingua “metafisica” per eccellenza non sarebbe il francese artificiale utilizzato da de Chirico, ma l’italiano doppiamente artificiale – e dunque tanto più metafisico – risultante dall’auto-traduzione dal francese a opera dello stesso autore.
Qualcuno si è spinto anzi ad affermare che l’unico scrittore che sia mai riuscito a lasciarsi alle spalle le vecchie convenzioni della scrittura sia proprio de Chirico, e che l’Ebdòmero di de Chirico sia l’unico romanzo surrealista degno di questo nome, eccettuato forse l’Immacolata Concezione di André Breton. Quel tempo sospeso tipico del sonno pomeridiano, il più ricco di immagini e di rielaborazioni, quel tempo immobile tipico di certe stazioni ferroviarie italiane, di certi pomeriggi estivi in cui il tempo si arresta e rimane assolutamente fermo, fissato nella sua ombra, ombra che a volte sostituisce del tutto l’essere umano o la statua che la proietta. Si tratta di un paesaggio allo stesso tempo fortemente antropizzato, in quanto prodotto interamente dall’uomo, e allo stesso tempo enigmaticamente desertificato, svuotato di ogni presenza umana. La presenza dei treni e delle stazioni ferroviarie – oltre ai consueti porti dechirichiani che si rifanno alla mitologia degli Argonauti e al ritorno di Teseo e del Figliol Prodigo – in queste poesie e in queste prose poetiche evoca una partenza sempre imminente e da sempre già avvenuta, da figliol prodigo dell’Arte che ogni volta torna ad abbracciare la realtà suprema dell’arte che si rivela nella sua assoluta artificialità. E a ogni partenza, come a ogni ritorno – scrive Cortellessa – “è sottesa l’ombra di una catastrofe rimossa”. La nave di de Chirico è proprio quella Nave di Teseo, la nave del Figliol Prodigo che torna in porto, che non riusciamo a riconoscere proprio perché batte una bandiera che ci è ignota o perché ha dimenticato di issare le vele bianche che avrebbero dovuto preannunciare il lieto fine della storia. Ecco perché è quanto mai appropriato che queste poesie di de Chirico vengano pubblicate per i tipi di una casa editrice che si chiama appunto La Nave di Teseo, che ha cambiato le varie parti della nave, la vecchia Bompiani, ma in fondo è rimasta sempre la stessa.
La nostra identità, in base al famoso paradosso filosofico della Nave di Teseo, si modifica nel tempo, eppure rimane sempre la stessa. Così ha fatto de Chirico nel corso della sua lunga carriera, nelle sue varie fasi, in cui appare così diverso eppure sempre lo stesso, sempre lo stesso pittore anche se di volta in volta ha cambiato completamente le basi del suo mestiere, dei suoi soggetti e delle sue tecniche pittoriche. Per rimanere se stessi, sembra dirci de Chirico con la sua straordinaria avventura intellettuale, bisogna partire, lasciare la propria casa, la casa del poeta, rischiare, affrontare venti e marosi, esplorare terre ignote, ma senza perdere la memoria di ciò che siamo.
Il volume è suddiviso in varie sezioni: “Manoscritti Eluard” (1911-1915); “Manoscritti Paulhan” (1911-15); “1816-28”; “Quaderno francese” (1928-29); “Dal 1929 in avanti” e una Appendice sulle “Città metafisiche” (Vale Lutetia, Salve Lutetia, Metafisica dell’America). La grande novità è rappresentata proprio dal Quaderno Francese, riscoperto negli anni Novanta da Paolo Picozza. Le Note finali di Cortellessa sono molto utili per entrare nell’officina poetica di de Chirico, per rivelare i suoi innumerevoli rimandi e citazioni, per esplicare le sue immagini così enigmatiche.
Unica nota stonata – nella pur pregevole e informatissima Introduzione di Cortellessa – sono alcuni termini a volte troppo ampollosi e immaginifici, utilizzati dal Curatore, come per esempio l’espressione “archimandrita del postmodernismo” applicata a Igor Stravinskij, oppure forme verbali ormai desuete come “spesseggiano”. Un’altra nota stonata la troviamo nell’Introduzione di Picozza. A un certo punto dell’Introduzione si dice testualmente: “Tutte le poesie di Giorgio de Chirico vengono oggi ripubblicate e presentate al grande pubblico con un volume raffinato, dal titolo intimo e familiare: La casa del poeta a cura di Andrea Cortellessa, con la traduzione di Valerio Magrelli ed edito da La Nave di Teseo”. Comprendiamo la poetica dell’arte autotelica, del quadro nel quadro, tipica di de Chirico, ma questa nuova poetica del libro sul libro, cioè del libro che parla del libro, anzi di se stesso, non ci convince del tutto. Cos’è, un nuovo tipo di volume con la recensione incorporata? Evidentemente andavano fatti degli aggiustamenti alla Introduzione di Picozza, cui va in ogni caso la nostra eterna gratitudine per aver ritrovato e pubblicato il cosiddetto Quaderno Francese di de Chirico.
Giunti a questo punto, i lettori possono acquistare La casa del poeta, mettersi comodamente a letto per il riposo pomeridiano e addormentarsi leggendo le poesie di Giorgio de Chirico, lasciandosi trasportare dagli straordinari e bizzarri accostamenti di parole che nascono dal suo francese artificiale e dallo stesso processo di traduzione e di auto-traduzione, in un mondo ricco di immagini, sensazioni ed enigmi.