Lello Voce / Alle radici della tradizione

Lello Voce, Razos, La nave di Teseo, pp. 112, euro 16,00 stampa, euro 9,99 epub

Le razos erano sintetiche prefazioni, accluse ai codici antichi, che illustravano il contenuto e le “ragioni” di alcune liriche del trovatore e della trobairitz di turno. Strizzando l’occhio alle descrizioni provenzali, Dante metterà insieme le introduzioni in prosa che precedono i testi beatriceschi della Vita nuova in un’insuperata armonia dialogica. Un poeta come Lello Voce, legato a Nanni Balestrini, allo spoken word, alla spoken music e al poetry slam, raggiunge la radice stessa della nostra tradizione poetica per continuare a indagare il rapporto stratificato tra testo (textus, tessuto), esecuzione e riflessione sui modi del dire. Razos può, quindi, essere interpretato a doppio filo come “ragionamento” assorto – quasi à la Valéry dei Cahiers – di poetica e autentica poésie pure. Il libro è diviso, appunto, in diciassette razos (contrassegnate da una dizione cogitante, platonica) e “diciassette madrigali muti” che fungono ovviamente da contraltare alle parti speculative. Proviamo a fare un rapido confronto tra uno stralcio della seconda razo e il secondo madrigale.

“Questa poesia non contiene immagini. Potete controllare da soli. Per quanto la leggiate e la rileggiate non vi ritroverete una sola immagine. Questa poesia è composta da soli pensieri. Certo, anche i pensieri hanno un ritmo, come le immagini. Ma è un ritmo diverso. È come un gorgoglìo che balbetti. […] Una poesia senza immagini è fuori contesto. È invisibile: può essere solo ascoltata o letta. Nessuno può vedere una poesia senza immagini. Leggere una poesia non è la stessa cosa di vederla. Cioè essa può essere letta, ma non su una pagina […]”. “È dunque questa la contraddizione finale della / democrazia, queste voci chiocce, queste parole / senza senso, questi nomi senza cose? O questo // ansimare senza suono, questo sguardo mesto / su un vuoto troppo veloce, l’usura delle suole, / queste mani vuote e questo cielo senza stella // ne sono vendetta e volto? Quell’unico pensiero / che non era maschera e non credevamo vero?”.

Quale rapporto intertestuale può evidenziarsi? Be’, innanzitutto, è ancora evidente in Voce – con l’accorta operazione di centralità della razo e non del componimento vero e proprio – l’idea di “lateralità” proveniente dal Gruppo 93 e lo svuotamento ontico del post-avanguardismo avant-pop. Com’è detto in esergo all’ottavo brano, “la poesia è nata prima dei poeti”: la ricerca di Voce è allora “andamento” e “slogarsi” della “sintassi”, tessitura di un linguaggio non parlato dall’uomo, ma che parla l’uomo. La poesia, essendo fatta di soli pensieri, diviene nome senza cosa, è benjaminianamente abolito il legame simbolico della lingua santa, prelapsaria. Così, la presenza delle scienze matematiche, fisiche e informatiche, l’intuitivo legame con il network di artisti Fluxus, la paradossale prossimità con i temi medievali rendono Razos un’opera plurivoca, introiettata nel brivido dell’anonimato (“Senza titolo e senza autore. Senza passato e senza futuro. Senza protezione e senza canone. Senza armonia e senza cacofonia”), incredibilmente capace di affermare – nel pieno della via negationis e del prosciugamento – una strada di inedita fioritura: “Ma, quando si spegnerà la poesia, al lettore sembrerà che si spenga ed estingua il mondo”.