Provando a immedesimarsi per un momento nella mente di un tassista – magari obnubilato dal troppo lavoro, dai tanti chilometri percorsi, dalle chiacchiere dei clienti ospitati in vettura, nonché affaticato dalle proprie vicende personali e incline, per di più, verso riflessioni di più ampio respiro, per quanto costantemente giocate sul filo dell’allucinazione – si può forse intuire facilmente come questo paesaggio mentale sia molto simile a quello di chi scrive letteratura. I clienti diventano personaggi, più o meno abbozzati, le cui storie si interrompono alla fine della corsa, per poi riprendere in un viaggio successivo, oppure restare incompiute; i luoghi attraversati sono tanto luoghi della memoria per il tassista-narratore quanto per i suoi clienti-personaggi, e così via.
Fatta questa premessa, non può sorprendere il fatto che il protagonista di Last taxi driver, Lou Bishoff, sia un tassista e, al tempo stesso, uno scrittore (segnato, inevitabilmente, dall’insuccesso, in questa sua vita precedente). Si aggiunga, poi, che Lou Bishoff è un tassista bianco che attraversa il delta del Mississippi, dissezionando la città finzionale e il circondario di Gentry. E che Gentry è sicuramente nomen omen, ma più, forse, come citazione della cantautrice Bobbie Gentry, the Delta Sweetee, che non come accenno un processo di gentrificazione mai avvenuto, in questa regione disastrata sia dal punto di vista socioeconomico che da quello culturale.
Si otterrà, così, una miscela esplosiva, aperta a deviazioni eterodosse e non di rado comiche, ai limiti del grottesco, che ben si riflettono nelle illuminazioni a sprazzi della voce narrante, molto ricca e colorita, di Lou. E si può allora immaginare, altrettanto facilmente, il tour de force affrontato dal suo traduttore italiano, Leonardo Taiuti, socio fondatore di Black Coffee e firmatario, negli ultimi anni di traduzioni altrettanto complesse e stratificate, pur nella differenza di stile (come in Casa di foglie di Mark Z. Danielewski, curata insieme all’altra anima di Black Coffee, Sara Reggiani) nella resa di questa che, pur sotto un apparente basso profilo, rimane una narrazione vivace e scoppiettante. Del resto, Lee Durkee – autore di origini hawaiane classe 1961 – è stato apprezzato e fortemente raccomandato, in patria, da scrittori del calibro di Chris Offutt, George Saunders e Mary Miller (quest’ultima, peraltro, meritoriamente portata in Italia sempre da Black Coffee).
Tra i vari pregi della sua scrittura, se ne aggiunga, infine, un ultimo. È soltanto dopo aver letto le ultime righe del libro, infatti, che si può tornare a ragionare sul titolo, fornendone una lettura adeguatamente stratificata. Last taxi driver risulta essere la narrazione di uno degli ultimi tassisti di Gentry, in un momento in cui la concorrenza di Uber – direttamente citata nel testo, ma soltanto nelle prime pagine del libro – si sta affacciando minacciosa anche sul delta del Mississippi. Allo stesso tempo, Bishoff è anche una delle ultime apparizioni di quel Taxi Driver che già nel 1976 incarnava le nevrosi, le paure e le ossessioni di una certa classe sociale e di una certa epoca degli Stati Uniti. Se sovrapposti, i due elementi creano un ritratto della white trash che esonda dai limiti della caratterizzazione pseudo-sociologica cui è troppo spesso relegata nelle descrizioni mediatiche europee, acquistando i toni vividi di un’allucinazione che, purtroppo, è anche realtà.
Nonostante tutto questo, però, Last taxi driver non è certamente un romanzo costruito a tavolino, ponendosi, invece, all’inseguimento di un’immagine che si costruisce passo dopo passo nel corso del romanzo, divertendo, appassionando, commuovendo, lasciando l’amaro in bocca. Il consiglio, in conclusione, non può essere altro che quello di saltare a bordo e di inseguire quel taxi, quel tassista.