Renzo Paris, Sessantotto visionario, Castelvecchi, pp. 89, euro 12,50 stampa
recensisce UMBERTO ROSSI
Era prevedibile: il cinquantenario del Sessantotto è tutta una celebrazione. Già nel 1988 c’era Mario Capanna a spiegare a noi giovani quanto fossero straordinari quegli anni. Ora che ne sono passati altri trenta, è un’epopea. Dappertutto ricordi, fasti, commemorazioni, rimemorazioni, mancano solo targhe e monumenti e non è detto che prima o poi non si provveda.
Purtroppo, essendo di quelli che nell’annus mirabilis aveva otto anni, il ché mi qualifica più come settantasettino che come sessantottino, soffro di quel brutto scetticismo verso la glorificazione di un anno che sicuramente segna una svolta (per molti ma non per tutti; in America l’anno rivoluzionario è il 1967), ma rimanda a una serie di processi complessi e contraddittori per cui le esaltazioni alla Capanna (e altri “eroi” di quel periodo, tra cui Fuksas…) sembrano un po’ troppo unilaterali e semplicistiche.
Poi, per fortuna, esce il compatto e lucidissimo Sessantotto visionario, memoriale tascabile del Grande Marsicano, e uno respira. Tascabile, ma talmente denso di fatti volti luoghi che dopo averlo letto sei quasi frastornato. C’è dentro di tutto in poco spazio, un Sessantotto compresso che rende l’idea della concitazione di quei giorni. E Paris, nella sua rimemorazione, rifugge dal tono celebratorio; la sua narrazione è sovente critica, e ricca di un giustificatissimo senno di poi.
Trovo interessante e illuminante la sua scelta di partire da prima, da un corteo di camion carichi di goliardi. Il nucleo psicogeografico del suo Sessantotto è un luogo altamente carico di memorie, un concentrato di storia del nostro novecento: la Città universitaria di Roma, sede della Sapienza, ateneo che in realtà fu la fascistissima Regia Università di Roma, quella che cacciò i docenti ebrei e chi non giurò fedeltà al Duce. La cittadella universitaria venne progettata da Marcello Piacentini, ras dell’architettura romana (e, ammettiamolo, progettista brillantissimo e a tratti geniale, opera sua e di Nervi il Palasport dell’EUR): doveva essere un altro dei fiori all’occhiello del regime, e ancora adesso trasuda la littoria retorica degli spazi in ogni suo angolo. Eppure contiene opere d’arte strabilianti come la Scuola di matematica di Giò Ponti, o il visionario affresco di Mario Sironi nell’Aula magna.
Ebbene, Paris parte proprio da lì, con i camion che partono dal piazzale dell’università, con i goliardi che cantano i Carmina Burana come si fosse ancora nel medioevo. Poche cose rendono l’idea della vecchia Italia come questo capitoletto iniziale, con l’istantanea di un’università ancora capisaldo del privilegio di classe. E Paris ti fa sentire la propria alienità a quel mondo; e fa percepire il cambiamento che preme, perché lui, figlio di proletari della Marsica, è entrato lì dentro e sta per laurearsi; e come lui tanti nei vari atenei italiani si stanno infiltrando in un mondo fino ad allora appannaggio esclusivo delle classi agiate.
Non è un caso che il Sessantotto inizi dalle università; e non è un caso che tutto questo memoriale orbiti attorno alla Città Universitaria, al giovane Paris che avanza verso la laurea mentre intorno gli studenti (lui incluso) protestano, i fascisti picchiano, la polizia carica (ma ogni tanto le prende pure), gli operai ribollono (e l’anno dopo si agiteranno di brutto), le donne scendono in campo, il sesso si libera (e l’impressione è che i maschi siano andati a traino delle femmine), le facoltà vengono occupate, Veltroni critica Moravia (anche questo è successo, ma si sa, lui preferisce Sofia Loren…), e tutto cambia perché tutto resti com’è (ma anche no). Tutto finisce il giorno in cui il neolaureato Renzo riceve una lettera che lo comanda in provincia di Treviso a insegnare italiano in una scuola media veneta. E quando sono arrivato a quel punto mi è venuta la pelle d’oca. Allora capisci che Sessantotto visionario è il prequel di Cani sciolti, il suo primo romanzo. Che esplicita tutto quello che in quel romanzo era implicito, perché chi leggeva allora sapeva benissimo cos’era successo negli ultimi mesi. Che in qualche modo si chiude un cerchio, e che cosa può dire il meravigliato lettore se non chapeau?
Infine: in questa ricostruzione compatta ma ricchissima di vignette memorabili, di riflessioni taglienti e spesso amarissime, di momenti decisamente comici, c’è una galleria di personaggi visti da vicino che sono stati poi protagonisti nel bene e nel male dell’Italia che viene da quell’anno di scombussolamenti. Ed è come un lampo qualcosa che Renzo dice del momento in cui si siede a discutere la sua tesi di laurea davanti nientedimeno che a Natalino Sapegno: “Mi impressionò la parata di professori che dietro la cattedra sembravano occupati a scambiarsi notizie sui loro luoghi di vacanza. Mi sembrò di aver colto la parola ‘Capalbio’. Le domande che mi fece Asor Rosa riguardavano tutte un paio di capitoli centrali della mia tesi.” Forse ci voglio vedere troppo, ma mi sembra una prolessi che lascia presagire la trasformazione della sinistra movimentista e barricadera in élite intellettuale, snob e garantita una decina d’anni dopo. Una sinistra che col tempo perderà il contatto col resto della nazione; un contatto che allora, pur tra mille contraddizioni, comunque c’era.
Insomma, in una stagione di celebrazioni, ci vuole qualcuno che tenga i piedi per terra. Renzo Paris ci riesce benissimo. Leggetelo: non sarà proprio come esserci stati (anche se ci andrete vicini), ma vedrete che tante cose di allora – e di come sono diventate dopo – un po’ vi si chiariranno.