Le versioni dei Biller

Maxim Biller, Sei valigie, tr. Giovanna Agabio, Sellerio, pp. 161, euro 15,00 stampa, euro 9,99 epub.

Già candidato al Deutscher Buchpreis 2018, Sei valigie (Sechs Koffer, in tedesco) è l’ultimo romanzo di Maxim Biller ora disponibile anche in Italia nella traduzione di Giovanna Agabio per i tipi di Sellerio. Biller, figura di scrittore poliedrico e irriverente, molto noto in Germania anche per la sua attività di pubblicista, non è del tutto sconosciuto al pubblico italiano. Di lui è infatti apparso nel 2015 Taci, memoria (L’Orma Editore, 2015), frizzante antologia di racconti permeati dall’ironia sobria ed elegante che caratterizza lo stile di questo autore ebreo di origini russe nato a Praga nel 1960, trasferitosi con la famiglia in Germania nel 1970, e ormai di casa da diversi anni a Berlino.

Proprio la memoria, tanto nei pieni che sostanziano la narrazione, quanto nei vuoti da cui la narrazione stessa origina e che tenta come può di colmare, è fra i temi principali di questo romanzo di breve respiro, ma caratterizzato da una complessa architettura narrativa. Biller non è certo il solo a dare così rilievo a questa tematica, una delle sue predilette in assoluto. Quello della memoria è anzi uno fra i motivi più ricorrenti nella letteratura di lingua tedesca dal secondo dopoguerra in poi, una letteratura costantemente alle prese con un passato che non è né morto né tanto meno passato, parafrasando una fortunata espressione di Christa Wolf tratta da un romanzo, Trama d’infanzia (e/o, 2015), che resta ancora oggi un modello per questi strani ibridi a cavallo fra autobiografia e fiction.

Se tuttavia per gli scrittori “tedeschi tedeschi” volgere lo sguardo al passato ha voluto spesso dire fare i conti con la “generazione dei colpevoli” (quella dei padri, nonni o bisnonni che avevano vissuto durante il regime nazista), per l’ebreo russo-praghese-tedesco Maxim Biller tale operazione significa ripercorrere al contrario la diaspora che ha disperso i membri della sua famiglia – letteralmente – da un capo all’altro del mondo. E proprio a questa dispersione sembra innanzitutto alludere il riferimento alle “sei valigie” che danno il titolo al romanzo, sorta di metonimia di identità condannate a un perenne nomadismo, individui che possono ben affermare, con il Brecht posto in esergo dall’autore, che “il passaporto è la parte più nobile di un uomo”.

Tuttavia il significato assunto dalle valigie in rapporto al romanzo non si esaurisce qui, tant’è che esse corrispondono anche alle diverse prospettive da cui viene raccontata questa vicenda familiare travestita da detective story. Il romanzo si presenta infatti, almeno in parte, come un giallo, e muove da un interrogativo che percorre carsicamente l’intera narrazione: chi ha tradito Schmill Biller, il “tate” della famiglia Biller, provocandone l’arresto e la successiva impiccagione? La domanda, come risulta chiaro fin dall’inizio, è quanto mai scottante: dal giorno della cattura, avvenuta nel 1960 all’aeroporto di Mosca per contrabbando di valuta, nella famiglia non ha infatti mai smesso di circolare il sospetto che a tradire sia stato proprio uno dei Biller.

È dunque sulla base di questo sospetto che il narratore – un tipo che già a quindici anni affermava di detestare ogni genere di segreto – scava nella propria memoria e passa in rassegna i personaggi principali del romanzo, tutti membri stretti della famiglia: oltre a padre, madre e sorella, oltre a uno zio Vladimir che vive ormai da parecchi decenni in Brasile, soprattutto lo zio Dima, la zia Natalia e lo zio Lev, figure alle quali vengono dedicati interi capitoli del libro. Ne deriva un affresco familiare assai vivace e un’opera che non si potrebbe che definire polifonica, per la tendenza del narratore a cedere spesso la parola ai suoi personaggi: tanto a Dima, che incontriamo già all’inizio del romanzo mentre esce di prigione dopo avervi trascorso cinque anni per aver commesso lo stesso reato del tate; quanto a Lev, l’unico della famiglia a essere riuscito a riparare a Berlino Ovest con i dollari che il nonno gli aveva dato affinché li spartisse con i fratelli, ma che poi lo stesso Dima, in cambio delle libertà, avrebbe tentato di incastrare per conto dei servizi segreti nell’ambito di una fantomatica “Iniziativa Fratello”; quanto infine all’affascinante Natalia, moglie di Dima ed ex amante del padre del narratore, verso cui la madre di Maxim, forse più per gelosia che per altre ragioni, nutre da sempre forti sospetti.

Già dalle prime battute del romanzo si capisce tuttavia come il tentativo di risolvere questo enigma familiare fornisca in realtà soltanto il pretesto per raccontare la vita di personaggi sballottati dal loro stesso destino, figure ora tragiche ora comiche la cui storia si intreccia a più riprese con la Storia e ne esce quasi sempre sconfitta. Emblematica, in questo senso, è la parabola tracciata da Natalia, sicuramente uno dei personaggi più complessi del romanzo: scampata per miracolo alla morte nel lager di Theresienstadt, in seguito regista di un qualche successo nella Praga del dopoguerra, infine esule a Montréal con il marito e la figlia Ettie, prima di morire suicida dopo essersi gettata sotto un camion a Ginevra.

Nel mentre che ricorda e racconta, Biller riesce più volte a toccare tematiche tristemente attuali (fra tutte l’antisemitismo e le dure condizioni di vita sotto un regime totalitario), senza troppa indulgenza verso i suoi familiari e sempre da una prospettiva privata che lo tiene a distanza da qualsiasi ideologia. Piuttosto che giudicare, narra, lasciando il lettore libero di scegliere se riflettere o meno sugli episodi che gli vengono raccontati.

Questo atteggiamento si ripercuote in maniera particolare sulla storia gialla, che non viene risolta. I vari piani temporali che si alternano fra un capitolo l’altro (nonché spesso all’interno del singolo capitolo), indizi e dettagli che riemergono in punti diversi del romanzo senza tuttavia mai fare sistema, sono le spie più evidenti di una narrazione che conferisce maggiore valore alla ricerca delle risposte che non alle risposte stesse. Così nelle ultime pagine del romanzo, alla domanda di un’intervistatrice tedesca che le chiede chi sia davvero colpevole della morte del tate, la sorella del narratore, anche lei scrittrice di un libro sui segreti di famiglia, risponde che “questo non riguarda nessuno”, negando alla speaker (e con lei naturalmente al lettore) la spiegazione di ciò che sarebbe realmente accaduto.

Concludendo possiamo dire di Sei valigie che si tratta di un romanzo che fa della propria natura paradossale il suo maggiore punto di forza. Certo, quel tipo di lettore particolarmente attento alla coerenza narrativa potrebbe rimproverare a Biller le numerose incursioni all’interno della psicologia dei personaggi; dimensione che, data la natura del racconto, a rigore non dovrebbe essergli accessibile. Lo stesso tipo di lettore potrebbe poi domandarsi che senso abbia raccontare una storia di questo tipo per infine fare proprio il riserbo un po’ piccato della sorella di fronte a una richiesta ritenuta impertinente. Tuttavia siamo certi che ci saranno anche altri lettori che ringrazieranno Maxim Biller per essere riuscito, grazie anche a questi paradossi, a trasformare “una vicenda puramente familiare” in un romanzo capace di affascinarli e coinvolgerli.