A Singapore case e palazzi hanno vita breve; interi quartieri vengono costantemente travolti dall’ansia febbrile del governo di abbattere e ricostruire. Sanificare. Gentrificare. Dare una mano di vernice al vecchio per far largo al nuovo, rimuovere il passato con i suoi grovigli, le sue contraddizioni – che non sono poche, in uno dei paesi più densamente popolati al mondo, vero melting pot con una secolare storia di colonialismo e immigrazioni, che pure vanta uno dei principali distretti finanziari del pianeta. A Singapore (e non solo) il modo più semplice per tenere insieme questo patchwork multietnico e mostrare un volto pulito al mondo è dimenticare e rimuovere. E quando il passato è scomodo, orribile, è molto più facile provare a dimenticarlo, o almeno a tacerne.
Nel 1942 Wang Di ha solo 16 anni quando un gruppo di giapponesi fa irruzione nel suo kampong e la rapisce insieme a tutte le ragazze del villaggio, costringendole a prostituirsi (diventare “donne di conforto”, come venivano eufemisticamente chiamate) per le truppe di occupazione a Singapore. Per evitare che le ragazze tentino il suicidio, viene detto loro che le loro famiglie avrebbero ricevuto del denaro in cambio del loro sacrificio (cosa che naturalmente non avverrà mai). È solo quasi sessant’anni anni dopo che Wang Di si decide a raccontare al marito quello che ha passato nella “casa bianca e nera”, la villa coloniale che fungeva da bordello. Tra i tanti orrori di cui veniamo a conoscenza dalle parole di Wang Di, colpisce come il timore principale delle ragazze non fosse tanto quello di morire o di non rivedere più i propri cari, quanto la paura di affrontarli alla fine della guerra. La vergogna di essere additate come impure e quindi escluse dalla società è per loro una prospettiva insostenibile – ed è proprio quello che accade a molte ragazze: l’impossibilità di reinserirsi in seno alle loro famiglie. Al punto che alcune scelgono di non tornare; altre scoprono che i loro stessi genitori fingono di non conoscerle. Ma soprattutto, a tutte o quasi, come Wang Di, viene impedito di raccontare la loro esperienza ai propri genitori e fratelli, che non vogliono saperne nulla, e negano disperatamente quel recente passato che ha stravolto l’immagine e la reputazione di tutta la famiglia.
“Non parlare mai con tuo marito di quello che è successo”, è l’imperativo della madre di Wang DI, e dall’intera società. “Non parlarne con nessuno” è il sottotesto fin troppo chiaro. Wang Di finisce per interiorizzare talmente bene questo imperativo, complice il terribile trauma delle violenze subite, che a sua volta nega al marito la possibilità di confidarle la sua esperienza durante la guerra. Per sessant’anni non gli ha mai fatto domande in proposito, e, proprio come avevano fatto i genitori con lei, cambiava stanza appena lui iniziava a parlare di quegli anni.
Rimasta vedova, Wang Di viene costretta a trasferirsi in un nuovo quartiere, come previsto dal nuovo piano abitativo statale. Come quand’era giovane, si ritrova nuovamente ostracizzata da chi le sta accanto: le vicine di casa considerano vergognosa la sua abitudine compulsiva di raccogliere ogni sorta di paccottiglia, oltre a lattine e carta, in parte per rivenderla, in parte per conservarla. Anche loro vorrebbero allontanarla, farla sparire, in quanto retaggio vivente di povertà e di vecchiaia: perché conservare oggetti inutili, che oggi costano pochi centesimi? Wang Di ha iniziato a conservare tutto subito dopo la guerra trasformando la propria abitazione in una sorta di tana contro l’impermanenza del tempo e della memoria cui è costretta – un’abitudine che solo il pudore nei confronti del marito aveva arginato fino ad allora. Ma adesso, quando si accorge di essere rimasta sola con i suoi ricordi, e che tutto ciò che le rimane dell’uomo con cui ha passato quasi tutta la vita è una misera scatola di anonimi effetti personali, comincia la sua personale battaglia per disseppellire il passato del marito – quel passato che lei stessa aveva rifiutato.
Ritrovare le tracce del passato è molto difficile, in una città che le cancella accuratamente dal paesaggio urbano e dalla mente delle persone. Le sue ricerche si intrecceranno con quelle di Kevin, l’altro protagonista del libro, un ragazzino di quattordici anni, anch’egli impegnato nella sua lotta contro i silenzi dei genitori e le terribili crisi depressive del padre – di cui, naturalmente, non si può parlare. La sua preziosa arma è un registratore portatile, con il quale conserva le ultime, sconcertanti parole della nonna, che è l’unico a udire: suo padre in realtà non è figlio della nonna, ma è stato “trovato” durante la guerra. Il desiderio di ricostruire la storia familiare, e di rompere il muro di silenzi che domina la sua esistenza, lo porterà a scoprire una sconcertante verità, e a integrare i tasselli della propria storia con quelli di Wang Di – a riprova del fatto che memoria e identità non possono fare a meno l’una dell’altra, e soprattutto che senza l’aiuto degli altri è impossibile sapere davvero chi siamo.
Memoria e identità, dunque, come frutto di una (ri)costruzione collettiva, spesso fragile, raramente univoca, che si rispecchia anche nella tecnica narrativa. Nel romanzo si alternano due diversi piani temporali, il Duemila e il 1942-45; mentre gli anni della guerra sono raccontati in prima persona da Wang Di, nel “presente” si avvicendano le storie di Wang Di, narrata in terza persona, e quella di Kevin, raccontata invece in prima persona; la figura del ragazzino sembra adombrare quella dell’autrice, nata a Singapore, che come afferma nei ringraziamenti, ha attinto a piene mani dalla storia familiare per ricostruire questa storia drammatica e toccante che riguarda molti. Significativamente, il libro si apre e si chiude con tre versioni diverse della stessa storia; “Tu quale credi che sia vera?” chiede alla fine Wang Di a Kevin, il quale “ci pensò un poco, e quando rialzò lo sguardo lo sapeva” – quasi a indicare che l’immaginazione (la fiction) può rivelarci più di quanto pensiamo.