Aldo Busi: come direbbero gli americani, sicuramente un personaggio greater than life. All’uscita della sua ultima fatica, ci siamo ovviamente chiesti se bastava un solo recensore per affrontarla; e ci siamo detti che no, non bastava di certo. Abbiamo pertanto affiancato a una delle firme storiche della Rivista uno dei giovani turchi, e vi proponiamo di conseguenza questa doppia recensione. Per Busi, ci pare il minimo (sindacale).
È l’Italia del 2018. Aldo Busi è nel tempo dell’Italia. Potremmo dire nel tempio diroccato, squamato, ben lontano dal turgore del passato. Il principio di disuguaglianza ha fottuto i più, mentre i meno (occorre ricordare chi sono?) passano le giornate a sodomizzarsi utilizzando i nomi di battesimo come soprannomi. E si notano le differenze di vestiario, oltre al vocabolario misero come se un’inondazione di fanghiglia lo avesse eroso similmente ai giorni di Genova e Firenze alluvionate.
Busi invece torna in acrobatici voli lessicali, ponendo le sue regole e le malinconiche quanto implacabili saette al servizio della sola letteratura possibile. Montichiari (sua residenza fiscale) è unico e al contempo paese nazionale. Con l’intero riguardoso dialetto che dice tutto sapendo bene come dire tutto. Meglio del toscano che avrebbe dovuto allenare a lingua italiana gli italiani. E in tale luogo Busi, tornando da viaggi pedagogici, setaccia la vita che non smette di addentare la superficie, di dichiarare il prezzo di tutte le cose, dalle mutande ai sistemi informatici, dai cambiamenti climatici alla carta igienica, e il grado d’inquinamento delle mozzarelle di bufala.
Sono tutte le consapevolezze ultime (e penultime) di Busi ad atterrare le bancarelle di Amazon, a strappare i manifesti della morta repubblica industriale, in 160 pagine dove frasi lunghe anche tre pagine, in completa assenza di punti fermi, evidenziano la resa del comun (basso) lettore. Ed è una goduria. Assolutamente. Non sarà la vita a essere ridotta, preda degli ultimi linguaggi in voga, ad abbandonare la buona educazione? Quei linguaggi, in evidentissima decadenza, che hanno cambiato la faccia della società e della nazione? Ci stiamo dentro tutti, apostrofiamo i nostri simili con non più di cento vocaboli, e il massimo del divertimento lo troviamo nei graffiti metropolitani. Ignorando del tutto le loro conseguenze artistiche.
Busi racconta fatti atroci e mostri incapaci di congedarsi, si sente che non colleziona ma che non può fare a meno di costeggiare la realtà ormeggiata a spezzoni televisivi. La gioventù dei seminari non ha abdicato al senso mondano della vita, i più hanno radicato infestanti alle bieche soap elargite come iodio nell’acqua potabile. I personaggi scomposti sono la specialità dello scrittore, forte nel farsi raccontare (e poi narrare) chiacchiericci e usurpazioni corporali di collettiva familiarità. Questi abitanti delle consorterie di compravendita sarebbe bene che non avessero scampo, ma forse nemmeno Busi ormai confida nel lavaggio manuale dei poteri ultimi, allo sciogliersi del sale delle statue che rimpiangono la vetusta Sodoma. Se al compito non riesce la miglior fabbrica della sua scrittura, l’elargito piacere semantico, nemmeno i cerimoniali degli dèi ci salveranno dalla più conformista fine del mondo (dell’Italia?). (e.g.)
In un’Italia che ha perso qualsiasi punto di riferimento morale, qualsiasi ideale politico, qualsiasi freno inibitorio, qualsiasi residuo di buon gusto, rimane soltanto uno scrittore che sa che cosa vuol dire confrontarsi con la grandezza della sua stessa scrittura e con la sfida dello stile. Le consapevolezze ultime è anche questo: la storia patria rivista con gli occhi di uno spettatore disincantato che ne ha viste tante e che non si è mai stancato di denunciare – in uno stile apparentemente involuto ma al tempo stesso tagliente, che si adatta perfettamente ai nostri tempi – la squallida ipocrisia del potere, compreso il potere degli impuniti che lo invitano a cena non perché capiscano qualcosa di ciò che ha scritto, ma soltanto perché anche Busi è stato ed è consapevolmente un personaggio – come scrive lui stesso – famoso per essere famoso, un “morto di fama”, forse perché si ricordano che è stato amante di qualche personaggio famoso oppure perché hanno visto su Youtube i suoi celebri litigi con altri personaggi anch’essi considerati famosi, forse perché ha partecipato all’Isola dei famosi per poi abbandonare l’isola dopo meno di un mese, per non parlare di altri programmi della cosiddetta TV spazzatura cui ha partecipato.
Sopiti gli antichi ardori di gioventù, quando girava il mondo facendo i lavori più disparati, sempre in cerca di avventure, quando scriveva la sua Tesi sul poeta americano John Ashbery – pubblicando qualche anno dopo per Garzanti la traduzione del suo poemetto Autoritratto in uno specchio convesso – e con qualche problema di prostata, avendo egli raggiunto la veneranda età di sessantanove anni, Busi dimostra di aver quasi raggiunto uno stato di saggezza e di leggerezza che gli permette di guardare con distacco le cose e le persone; ma non cessa mai l’onda anomala della sua indignazione per un mondo che egli disprezza profondamente e ciononostante continua a frequentare, quello dell’alta borghesia industriale, quello della cosiddetta “razza padrona”, dei potentati locali, nazionali e internazionali che lui ben conosce, e non da oggi.
Questo suo ultimo libro – fortunatamente nel senso di più recente – dimostra ancora una volta il suo feroce sarcasmo nei confronti di un’alta borghesia benpensante e benestante che continua a smaltire illegalmente i rifiuti e ad ammorbare l’aria con le esalazioni inquinanti delle sue fabbriche fottendosene dell’ambiente, che continua a consumare suolo per costruire autostrade-fantasma come la Brebemi, la famigerata Brescia-Bergamo-Milano, costata un botto ma pochissimo frequentata dagli automobilisti e dunque in definitiva completamente inutile. Alla fine di questo lungo excursus sull’Italia di oggi massacrata da una classe industriale e dirigente di scarsissima cultura e dedita soltanto ai suoi sporchi affari, tout se tient, ossia, come dice Busi, proponendo una originalissima traduzione di questo noto modo di dire, “tutto convive”, il grande industriale con l’intellettuale disorganico, il personaggio televisivo con il politico, il massone con il renziano, il leghista con il grillino, lo squallore totale dei Signor Rossi e dei Signor Brambilla e la grandezza decaduta di uno scrittore che – come egli stesso confessa nella frase posta ad exergo di queste sue ultime consapevolezze – pur di continuare a scrivere si è ridotto a vivere. (p.p.)