Nella lettura di un romanzo scritto da un autore attivo in primo luogo come poeta, è facile indulgere nella ricerca di una continuità, a più livelli, tra le diverse parti della sua opera. Se questa tentazione porta talora a una critica impressionista – magari ancorata a una centralità non più verosimile della scrittura in versi nel sistema letterario – nel caso del primo romanzo di Vincenzo Frungillo, Un nome in meno, non ci si può in ogni caso esimere dal ricordare il suo ultimo libro di versi, Le pause della serie evolutiva (Oedipus, 2016). Simile è l’ambientazione – tra Napoli e i Campi Flegrei, primi anni Novanta – e il rapporto tra storia individuale e collettiva; una mediazione, quest’ultima, che non di rado entra in crisia causa delle diverse rimozioni che la attraversano e che nel romanzo vengono a essere rappresentate, in primo luogo, da una vertebra rinvenuta in mare da una ragazza adolescente e appartenuta a un corpo che non è stato ritrovato.
Diversa, però, è la lingua: sempre estremamente controllata, se non rigorosa, rifugge qualsiasi tipo di furor lirico, o per altri versi, metalinguistico (come accadeva, del resto, anche nella poesia di Frungillo); al tempo stesso, la maglia della sintassi non manca di aprirsi a immagini potenti ed evocative, che sono circoscritte, in ogni caso, nell’ambito di alcuni brevi inserti. “La città lambisce la mobilia e la mobilia lambisce la città”, per esempio: spaccato dei bassi napoletani, dove “l’arredo urbano fa tutt’uno con l’arredo domestico”, rompendo così ogni barriera tra interno ed esterno, ed esponendo alla violenza della città anche chi ne voglia, almeno temporaneamente, fuggire.
Diversa è anche la questione autobiografica, molto più pressante nelle Pause della serie evolutiva, attraverso l’oscillazione di una prima persona talvolta catturata, talvolta lasciata andare in virtù delle diverse forme adottate, come quella del finto sonetto. In Un nome di meno si fa largo, piuttosto, una narrazione dal respiro tragico, favorita dai richiami al mito dell’area cumana e ancor di più da un’analisi del mito che si fa, con grande coerenza, narrazione. La prospettiva si allarga anche oltre il perimetro noto della cultura greco-latina, risalendo a radici etrusche o, per altri versi, a quella citazione dell’Inno del sole (o Grande inno ad Aton) egizio, nella prima parte del libro, che si offre come mise en abyme di tutto il romanzo: “Se tu visiti le profondità della terra / nei campi dei morti…”.
Inoltre, la tragedia che si va delineando nelle pagine del romanzo sconta a ogni passo il suo rapporto ambivalente con la cronaca; lo fa attraverso il personaggio della giornalista precaria Renata, che si incarica di raccontare il caso della vertebra ritrovata. Renata ha ben presente l’insegnamento del suo maestro di giornalismo: “La cronaca non dev’essere lasciata a se stessa. Il cronista che non ha una visione più ampia della realtà resterà per tutta la vita un giornalista di nera. La cronaca lasciata a se stessa non può che diventare cronaca nera”.
Di questa visione più ampia della realtà, la ricostruzione della vicenda tragica e criminale dietro al ritrovamento della vertebra è solo il primo passo: cronaca e tragedia si sfidano e s’intrecciano nel raccontare un momento cruciale della storia italiana, come i primi anni Novanta, chiarendo come molti processi, elaborati, in prima battuta, all’interno dell’invenzione romanzesca, abbiano poi innervato la storia dei decenni a seguire, fino ai giorni nostri.
In fondo, se c’è comunanza tra il primo romanzo di Frungillo e la sua produzione poetica va rintracciata innanzitutto nella nozione di organon, già adottata dall’autore in un dialogo di tre anni fa pubblicato sulla rivista online “In realtà, la poesia”. Si parla di poesia, ma il discorso può essere allargato anche al romanzo – a questo romanzo, almeno: “La poesia ancor prima di genere letterario è strumento di memoria e di conoscenza. Sembra un ossimoro, ma non è così. Noi abbiamo la necessità di richiamare alla memoria ciò che per convenzione bisogna rimuovere in quanto tremendo”.