Elif Batuman, L’idiota, tr. Martina Testa, Einaudi, pp. 415, euro 21,00 stampa, euro 10,99 ebook
Una matrioska variopinta questo originale romanzo di Elif Batuman, scrittrice statunitense di origini turche: una narrazione che si muove su più livelli per arrivare a interrogare il rapporto profondo tra linguaggio/realtà intrattenuto dalle seconde generazioni.
La protagonista Selin, un alter ego dell’autrice, è un’impacciata matricola all’università di Harvard negli anni ’90. Non ha mai fatto sesso, non ha mai bevuto un bicchiere di vino, si aggira nel campus alla ricerca di lezioni interessanti finendo inevitabilmente per frequentarne di assurde (come quella di Mondi Costruiti tenuta dall’artista Gary). Con un umorismo esilarante mai disgiunto dalla grazia, l’autrice ci guida nelle scoperte esistenziali della sua giovane protagonista: l’amicizia; la passione per la lingua e per la letteratura russa; l’amore, ovviamente infelicissimo; le relazioni familiari; i viaggi.
Il suo sguardo idiosincratico sulla vita è filtrato dal mondo delle parole, l’unico nel quale si sente a suo agio, ma del quale nel contempo sente l’inadeguatezza. Anche la dimensione totalizzante dell’amore viene scoperta da Selin attraverso le parole, quelle delle e-mail scambiate con Ivan, un matematico di origini ungheresi e compagno di corso di russo. Mentre Ivan, già fidanzato con un’altra ragazza, riesce a tenere salda la distinzione tra dimensione linguistica dell’amore e realtà, Selin smarrisce se stessa nelle parole scambiate con lui e finirà per fare un viaggio estivo demenziale in Ungheria in qualità di insegnante d’inglese semplicemente per assecondare questa sua passione infelice.
Importanti sono poi le parole dei romanzi, che diventano un rifugio nei momenti di maggiore scollamento di Selin dalla realtà, ma anche una lente di lettura e d’interpretazione del reale stesso (non a caso il titolo del libro, che riassume la sensazione della protagonista di sentirsi sempre fuori posto, è un omaggio a L’idiota di Dostoevskij).
Ma le parole centrali del romanzo sono quelle della lingua turca, che Selin comincia a contemplare dall’esterno e a confrontare con l’altra lingua che possiede profondamente, l’inglese, e con gli altri idiomi con i quali entra in contatto attraverso le vicende vissute (il serbo, l’ungherese, il russo, il francese). Il suffisso verbale turco –miş, sul quale Selin scrive una tesina per un corso di linguistica, le fa capire che ogni lingua è una diversa rappresentazione del mondo. Questo suffisso, infatti, non ha l’equivalente nelle altre lingue e viene utilizzato per fatti ai quali non si è assistito personalmente, diventando così per la protagonista il simbolo della rappresentazione soggettiva del mondo. Con umorismo finissimo, il –miş è incarnato nei ricordi Selin dalla cugina Dilek, che andava a riferire agli adulti momenti di paura, di debolezza, di cattiveria della protagonista.
Il suffisso -miş diventa così la chiave interpretativa del romanzo e la concretizzazione della mancata corrispondenza tra rappresentazione linguistica del mondo e realtà esterna. Il -miş nel romanzo non è solo l’essenza dell’amore e dell’amicizia, della vita universitaria e dei viaggi, ma anche della storia e delle sue verità taciute: attraverso i racconti di Ivan e di Svetlana, un’amica di origini serbe, Selin scopre la violenza coloniale dell’impero ottomano.
Ma se la scoperta della brutalità della storia colpisce talmente la protagonista da farle girare la testa, a noi lettori la scoperta del Turco, l’automa giocatore di scacchi che ha sconfitto al gioco addirittura Benjamin Franklin, non può che farci sorridere e apprezzare ulteriormente questo prezioso romanzo.