Ben Lerner è una delle voci più interessanti della letteratura degli Stati Uniti di questo inizio di secolo. Nato nel 1979 a Topeka, ha pubblicato finora due raccolte di poesia e tre romanzi, uno uscito per Neri Pozza (Un uomo di passaggio del 2011) e i successivi per Sellerio (Nel mondo a venire del 2015 e Topeka School del 2020). La scrittura di Ben Lerner è sottrattiva ma non ermetica, lascia ampio spazio al lettore per meditazioni spontanee, affidandosi a citazioni colte e pop che dimostrano un bagaglio culturale e di interessi trasversali davvero encomiabile.
Seguendo l’opera dell’autore, questo terzo tassello va ad ampliare la capacità di Lerner di raccogliere e documentare le problematiche relative al contatto tra gli uomini e il mondo in cui si trovano immersi, poco importa che si tratti della Spagna di Un uomo di passaggio o la New York di Nel mondo a venire. Lerner enuclea la disconnessione tra ciò che siamo e ciò in cui viviamo, uno scollamento di cui si accorgono soprattutto le classi agiate del primo mondo, Stati Uniti in primis.
Con Topeka School il tema resta evidente, il protagonista è costantemente distante dalla realtà, sia per un trauma subito da bambino sia per la difficoltà delle relazioni che via via vengono descritte nel libro, con una dolorosa dovizia di scene intense e contemporaneamente asettiche. In questi frangenti si avverte anche il tema che sta più a cuore all’Autore, ovvero il linguaggio, inteso come modalità per comprendere il mondo e, seppure con insuccesso, farsi comprendere dallo stesso. La ricerca del linguaggio ci riporta alla fervente attualità di Ludwig Wittgenstein, filosofo ora più che mai necessario a comprendere la nevrosi in cui il mondo vive dagli anni Ottanta in poi, post Reagan, post Tatcher e post Muro di Berlino.
Il linguaggio è la chiave per Adam, il protagonista, di vivere il mondo, di vivere nel mondo: esemplificazione data anche dalla sua passione studentesca, le gare di eloquio di cui è assoluto maestro. La componente genitoriale si manifesta quasi esclusivamente nel linguaggio, nelle parole che i due genitori, entrambi psicologi, rivolgono al giovane in ogni circostanza. Adam sente una voce dentro di sé, senza riuscire a enuclearne l’origine, dando vita a gravi dubbi sulla propria effettiva realtà.
Intorno ad Adam si muovono tanti personaggi secondari, ciascuno con le proprie difficoltà nell’affrontare l’incomunicabile: l’autore ha il pregio di donarci una pluralità di voci senza perdere di vista l’obiettivo latente di questo libro. Gli episodi più dolorosi paiono tratti direttamente da ricordi autobiografici tanto sono vividi, come è già accaduto nella precedente produzione di Lerner.
Potremmo azzardare un parallelismo con Jonathan Franzen, nelle cui opere però le relazioni si riverberano fisicamente sui personaggi, lasciando al linguaggio, alle parole, ai dialoghi densi o forzati soltanto il primo livello relazionale, dando vita a un complesso ecosistema di reazioni fisiche coscienti e più spesso inconsce. Ben Lerner fa gravare invece sulle parole, reali o mentali, il peso della gravosa accettazione di sé e del mondo, lasciandoci nel dubbio ben oltre l’ultima pagina del libro.
Possono le parole salvarci?