“Molteplicità”, la quinta delle Lezioni americane di Calvino, si apre con un passo di Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda. Il tema è “il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”.
Gadda vede il mondo come un sistema di sistemi e ama il cluster. Lo punge la polifonia e la politonalità. È ipertrofico nelle descrizioni, nelle divagazioni, nell’azzardo di registri espressivi eccentrici. Stordimenti ci colgono, quando sull’ottovolante poliglotta cerchiamo di aggrapparci alla costruzione della frase (l’ingegnere) che combatte (il soldato) per destrutturarci la testa, ammaliandoci e prendendosi gioco di noi.
Ma ci sono stati cinque anni – dal 1950 al 1955 – in cui Gadda è diventato normativo, precettivo, ermetico. Ha compiuto 57 anni, e non è ancora il famoso scrittore che diventerà a breve, quando Einaudi e Garzanti se lo contenderanno. Ha definitivamente chiuso con la carriera ingegneristica, impostagli dalla madre. È in difficoltà economiche e si trasferisce a Roma, dove la Rai gli offre un contratto per la pagina della cultura, alla radio. Deve commissionare pezzi ai giornalisti e rivederli, oltre che comporne di propri. È un’epoca in cui i testi vengono scritti e non improvvisati. Ed ecco che la specificità della radio pone due ordini di problemi. Il primo: come si deve scrivere. Il secondo: come si deve parlare.
Il conversatore deve pensare come se un milione di persone fosse in ascolto, ma deve parlare come se si rivolgesse a una persona sola. Gli ascoltatori della radio ascoltano nello stesso tempo, non nello stesso luogo […]. Tutti insieme non formano perciò un folla.
Rimangono singoli individui da persuadere, uno alla volta.
Parole di Piccone Stella, tratte dalla sapiente postfazione al libro, di Maria Rosa Bricchi.
Le Norme per la redazione di un testo radiofonico vennero incluse al contratto degli operatori, e inizialmente furono anonime. La prima edizione del ’53 aveva una copertina suggestiva: nella foresta, un saggio parla a tre animali feroci, che lo ascoltano assorti. In una seconda edizione del ’73, il libretto fu attribuito a Gadda e in copertina c’è il suo volto.
Entriamo nel merito.
Alla “sopportabilità massima del parlato-unito”, che è di quindici minuti, devono corrispondere “al massimo centottanta righi dattiloscritti”. Si suggerisce l’alternanza delle voci, un congruo uso della citazione, l’esclusione del tono accademico dove non necessario. Si mette al bando “l’allocuzione compiaciuta”, ridimensionando il ruolo del presentatore, che non debordi e “prevalga sulla sua vittima”. Si aborrisce l’uso della prima persona singolare “io, che ha carattere esibitivo, addirittura indiscreto”. Si invita a non usare parole straniere quando esiste l’equivalente italiano. Si propone di entrare subito in medias res, evitare le parentesi, le sospensioni sintattiche, preferire la paratassi alla ipotassi, fugare le litoti a catena, le allitterazioni involontarie, e altri demoni.
Le Norme sono condite di humor sciabolante contro i debosciati che commettono errori. Giammai datate, si sente l’urgenza di evocarle contro l’indegno stile prosodico dei cronisti contemporanei.
Pensiamo alle domande fatte dagli intervistatori. Spesso lunghissime, contengono già la risposta. Rubano tantissimo tempo a chi deve rispondere e anche ai poveri ascoltatori che intanto si addormentano. Quando poi sembra che stiano per finire, le domande vengono ripetute. Si rimane allibiti da un’oratoria che ignora il buon costume della dizione. Frasi che finiscono quando finisce il fiato, e non in base al loro senso. Pause sbagliate, pause assenti, enfasi su parole ininfluenti, accelerazioni in prossimità dei nomi propri, che diventano incomprensibili. Per non parlare dell’abitudine di parlare contemporaneamente, due, tre, quattro persone, uno sull’altro, senza essere a Wall Street. Cosa ne scriverebbe Gadda?
L’essere “atrocemente burocratizzato” dalla pagina culturale della Radio – come scriverà a Contini – gli fa comunque bene. In tre anni pubblicherà quattro libri: Il primo libro delle favole ( Neri Pozza, 1952); le Novelle del ducato in fiamme (Vallecchi, 1953, premio Viareggio); I sogni e la folgore (Einaudi, 1955); il Giornale di guerra e di prigionia (Sansoni, 1955).
Per concludere, la norma numero 10 contiene la summa dei delitti e delle pene di questo delizioso libretto. In poche righe, L’ingegnere in blu caro ad Arbasino, ci dice cosa non va proprio fatto.
Ma è spiazzante il rovesciamento. È proprio quello che fa lui con la sua singolarissima letteratura. Ci canzona? Canzona se stesso? Ci suggerisce di non imitarlo?
L’umorismo di Gadda ama punzecchiare “il tritume delle abitudini obbligative”.
Norme, ci vogliono. Ma non esageriamo.