Piacere. Delizia. Sono parole ricorrenti in Too Brief a Treat. The Letters of Truman Capote (2004). Indifferentemente dal destinatario, per l’autore di Colazione da Tiffany era, innanzitutto, l’atto stesso di scrivere lettere un piacere assoluto. Come l’attesa fibrillante di riceverne, quasi fosse un personaggio di Choderlos de Laclos. E, soprattutto, scriverle a mano: Capote detestava batterle a macchina (in questa raccolta se ne contano una dozzina) e, giusto per complicare la vita al suo biografo, Gerald Clarke, odiava apostrofi e maiuscole. A ciò s’aggiungono errori tipografici, dovuti alla fretta, o ortografici – “c’erano alcune parole (…) che non gli riusciva mai di scrivere correttamente” puntualizza Clarke nella Nota del curatore – corretti laddove necessario, nel pieno rispetto dell’integralità dei testi. Tutte le lettere, appunto, dal 1942 al 1984, che Clarke inanella in quattro fasi distinte della vita di Capote (1924-1984), mentre la precedente edizione Delizie e crudeltà. Lettere 1959-1982 (Archinto, 2006) ne abbracciava solo un frammento.
Fedele, geloso, tranchant. Per Truman scrivere lettere è come respirare. Lo fa rubando il tempo alla stesura di un racconto, di un articolo, o di ritorno da un eccitante cocktail party. L’enfant prodige giunto dall’Alabama nel “gigantesco covo di serpenti” che è New York ha una nuova grande famiglia. “Ti mando tutto il mio affetto: un sacco, un mucchietto e un abbraccio ben stretto”: un mantra che il giovanissimo Capote riserva ad amiche e amici devoti, tra i quali spiccano artisti, editor, scrittori, redattori. Nomi più o meno altisonanti – Cecil Beaton, Richard Avedon, Christopher Isherwood, solo per citarne alcuni – compagni di liaisons sentimentali o rigorosamente editoriali, confidenti privilegiati di “eruzioni degne di nota” (pettegolezzi, ça va sans dire), confessioni intime, dissertazioni sull’arte e la letteratura. O sull’amore, quello “stato di meraviglioso terrore”, confessa a Leo Lerman, caporedattore di Vogue e Mademoiselle il 9 luglio 1946.
Truman ha appena ventidue anni, alcuni splendidi racconti già venduti a riviste femminili e il primo romanzo a un passo dalla luce. Henri-Cartier Bresson ne cattura l’esile sfrontatezza negli scatti realizzati per Appunti su N.O. (1946), un reportage su New Orleans firmato per Harper’s Bazaar. Ma i soldi non arrivano e con Mary Louise Aswell sfoga la propria frustrazione: “Sono stato davvero malissimo a N.O.; non ho mai lavorato tanto in vita mia, e mi auguro di non lavorare mai più così tanto in futuro” (4 agosto 1946). Preghiera non esaudita.
Raggiunto il successo con Altre voci, altre stanze (1948), gli anni dell’avventura (1949-1959) – che insieme al periodo 1942-1948 compongono metà di questo denso irresistibile epistolario – trascinano Truman, insieme al compagno Jack Dunphy, in un lungo frenetico grand tour per l’Europa. Via dalla pazza folla di Manhattan, dall’alta società corteggiata e, ora, ai suoi piedi, il lavoro non gli darà tregua. Parigi, Taormina, Roma, Tangeri, Verbier. Le lettere, con cadenza pressoché quotidiana, si alternano forsennatamente ad altri racconti, luoghi, esperienze: sceneggiature, una pièce teatrale e ancora reportage. Perché la fama è effimera e la dolce vita ha un prezzo. Le royalties arrivano in ritardo e Truman non esita, nelle lettere inviate al direttore del New Yorker o al suo referente presso Random House, a battere cassa. “Sono stato ingoiato da questa routine che mi obbliga a produrre articoli per incassare qualche dollaro” scrive a Newton Arvin nel 1958. Capote è un dandy insaziabile. Non rinuncia a nulla. Costosi abiti in velluto, scarpe di Ferragamo: peccato, si lamenta, che a Taormina non abbia occasione di indossarli!
“Lo stile di ciascuno è ciò che più gli sembra naturale. È un lungo processo di scoperta, destinato a non finire mai. Quanto a me, ci sto ancora lavorando e lo farò finché avrò vita”: il dono delle muse non si fa attendere. Dal 1959 l’assiduo affabile carteggio con Alwin Dewey, investigatore del Kansas Bureau of Investigation, è il naturale controcanto al libro più estenuante e innovativo di Capote, A sangue freddo: “è come fare un merletto finissimo (…) è così doloroso che non so chi mai riuscirà a leggerlo”. Letteralmente sfibrato nel corpo e nello spirito, dopo cinque anni e pochissime pause, con la storia del massacro dei Clutter Capote ha il mondo in pugno. Le lettere di quella stagione all’inferno (1959-1966) ripercorrono puntigliosamente la genesi e la composizione dell’ennesimo capolavoro, dell’ennesima vittoria prima della caduta.
Una parabola americana, l’esistenza di Capote, o meglio, hollywoodiana. Stregato dalla gloria e dalla ricchezza, non sa resistere alla volatile intimità del jet-set: con ingenua superbia lo ritrae per Esquire ne La Côte Basque, 1965 (1975), ma la punizione è la cacciata dal Paradiso. Nel tramonto etilico e psicotropo degli ultimi anni, come una Norma Desmond senza maggiordomo, lo scrittore non perde il tocco. Continua a pubblicare “e non permetteva a nessuno di leggere una frase che non svettasse all’altezza dei suoi standard elevati quanto un grattacielo” chiosa Gerald Clarke. Solo le muse non lo avevano tradito.