Le divoratrici, o il Club del cibo

Lara Williams, Le divoratrici, tr. Dafne Calgaro e Marina Calvaresi, Blackie Edizioni, pp. 327, euro 18,90 stampa

Supper Club (2019), titolo originale del romanzo, è la sontuosa entrée dell’inglese Lara Williams. Un piatto di portata preceduto da Treats (2016), una raccolta di racconti non ancora tradotti in Italia. Peccato. Consoliamoci, allora, con la pantagruelica mise en scène cucinata ad arte dalla giovane autrice: “una sorta di abbandono all’ansia come forma di cura”, spiega, in cui “il desiderio verso il cibo o verso l’essere nutrite mi è sembrato lo strumento d’indagine giusto”. Un bisogno di consolazione, insomma, che per Roberta, io narrante de Le divoratrici, germoglia tra le pareti squallide di una camera d’università, si insinua negli anfratti della sua cronica timidezza, nell’autolesionismo che, talvolta, ne consegue, fino a lievitare, come un soufflé, quando l’attrazione e il sesso si rivelano l’indigesto antipasto di una fallimentare vita amorosa. “Una mattina, mi ero ritrovata a pensare che cucinare poteva essere un bel diversivo (…) Era pur sempre un passatempo”. Con passione, pazienza, dedizione Roberta imbandisce cene succulente per i nuovi coinquilini dello studentato, nell’illusione amara che il piacere di nutrire il corpo degli altri possa colmare le cavità via via più abissali del suo ventre. Ma il soufflé non sempre riesce perfetto.

“Una buona tazza di cioccolata verso le undici apre lo stomaco per il pranzo” consigliava Ugo Tognazzi ne La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri. In senso metaforico, naturalmente, significa che, trovato uno spazio, occorre occuparlo con amore e cibo, poi condividerlo creativamente con altre donne affamate. Soprattutto se, Tognazzi docet, “la vita è un pasticcio”. Dieci anni dopo, è l’amicizia e la convivenza con Stevie – amica del cuore e collega nello stesso sito web di moda –, l’unione dei loro famelici sensi, a suscitare in Roberta l’idea rivoluzionaria (e anarchica tout court) del Supper Club. Segreto, ovvio. Ma non esclusivo: “Un clan tutto mio da poter nutrire e allevare. Un’istantanea di noi, indomite e affamate… e in continua espansione. L’aumento di peso fu una trovata di Stevie. Voleva che fossimo progetti d’arte viventi”. Ben presto, attirate dai simboli del Supper Club disseminati scientemente davanti a luoghi iconici della città, Erin, Emmeline, Andrea, Lina e altre divoratrici si uniscono alle periodiche scorpacciate di haute cuisine, musica a palla e alcolici vari. Individuato un tema e un luogo proibito da dissacrare, cibo rigorosamente raccolto nei cassonetti e quanto serve per la più stramba tenue de soirée tutto è pronto per il gran galà di un rituale dionisiaco che non ammette vegetariane. Perché “il punto non è soltanto il cibo. È il modo in cui affermiamo noi stesse in uno spazio. In diversi spazi”, afferma Roberta, “il punto è rivendicarne di più. (…) esistere in spazi che la società ci proibisce”.

Lontane anni luce da quell’orgiastica lugubre celebrazione di Eros e Thanatos che è il citato film di Ferreri, la grande abbuffata delle vestali del Supper Club è, al contrario, luminosa affermazione di una conquistata vitalità. È gourmandise e body art, sorellanza e coraggio di esistere. Ingredienti azzeccati per un club che non vuol essere solo culinario. Al ritmo dei Pogues e dei Sonic Youth, in questa opera prima, dalla scrittura elegante e mimetica, sfilano, così, prelibatezze da grand gourmet, cipolle caramellate e spaghetti alla puttanesca, tartare e stinco di maiale, solo per citarne alcune. Un Fight Club femminista, come lo ha definito The Guardian? Forse. Di certo Marco Ferreri queste donne libere ed eccessive le avrebbe amate follemente. Anzi. Le avrebbe divorate con gli occhi.