Incidenti, party d’alto bordo, disastri emozionali, rischio della vita, falsi e veri perdoni, abitanti enigmatici (per europei e americani) di un Marocco profondo, estenuante, bellissimo. Questo e molto altro nel secondo romanzo pubblicato da Lawrence Osborne nel 2012, addensato nel cuore sabbioso di territori dove le strade perdute si riperdono ogni volta all’alba, dopo una notte insonne dovuta a baccanali incomprensibili per gli abitanti dei luoghi sotto le colonne d’Ercole. La coppia inglese, Jo e David, vi sbarcano avendo l’impressione di oltrepassare una porta (una porta in verità inesorabile) che li risucchia nell’atmosfera addensata di sabbia, vernice, pepe nero e birra irrancidita, mentre loro agognano un gin tonic estremamente alcolico. Li attendono gli amici Dally e Richard, coppia felicemente gay, nella loro magione straricca e strakitsch, all’interno di uno ksar, dove ogni anno invitano amici giunti per officiare una tre giorni di sfarzoso weekend all’insegna di cibi e bevande voluttuose. Il tutto avvolto dai fumi concentrati del kif e dell’erba racchiusa nei joint, sotto gli sguardi invidiosi e sprezzanti del personale. Ai loro occhi tutti quegli infedeli, e quelle gazelle (definizione riservata alle donne straniere), meriterebbero l’ira del continente, l’Afrique, e di tutti gli scalpellini (quasi sempre giovani e bambini) relegati a estrarre dal terreno sahariano i fossili lasciati in epoche remote dalle masse marine.
Da Tangeri, nottetempo in auto, su piste e strade sconosciute, nel tentativo di raggiungere le periferie interne verso Errachidia, immerse nel fitto di buio e polvere, l’incidente era prevedibile. La detonazione prodotta da un uomo investito dalle lamiere cambia il futuro che Jo immaginava o desiderava, e l’estraneità, la differenza, l’essere pienamente stranieri e “occidentali” prende improvvisamente corpo nella storia che Osborne, in modo impareggiabile, inizia a raccontare inquadrando capitolo dopo capitolo i malcapitati, gli ospiti facoltosi, i padroni di casa e il loro gelido cameriere capo Hamid. Osborne sa come avvincere il lettore in un sofisticato gioco delle parti fino all’ultima riga, prima di svelare quel che il territorio riserba nel suo interno fatto di montagne sfregiate, strade avvolte nel nulla, odori e sapori locali miscelati abilmente con vini e liquori d’alto prezzo. Non si resiste alla descrizione di queste zone oscure, ripiene di un calore assurdo che nemmeno la vasta piscina, dove ogni ospite può divertirsi, riesce a contrastare. Osborne, viaggiatore immenso, nulla vuole ostacolare affinché le mutevoli figure dei fossili ci entrino nelle menti suscitando almeno una pallida idea di quanto la gente marocchina paventa: mostri giunti da altri mondi, che bisogna temere ma che danno sostentamento attraverso i denari estorti a turisti infedeli. Nulla ostacola affinché la storia si svolga, polverosa e caldissima, lungo gli errori umani e la sensazione di una sciagura imminente. Mentre all’interno della casa, lusso e pettegolezzi sfarfallano tra un brulichio di camerieri e il tripudio di denaro sperperato.
Osborne erede naturale di Graham Greene? Meglio avventurarsi nei territori calcati da Paul Bowles, per l’acidula presa in carico di un’umanità poco irreprensibile o addirittura stupida, alle prese con la natura in grado di schiacciare chi tenta di ricattarla. I cieli sovrastanti le storie raccontate nei suoi romanzi sono raramente protettivi, e i fantasmi incontrati sulle isole greche, nelle vie sporche di Bangkok, negli alberghi di basso livello a Macao, negli erg desolati del Marocco, mettono in guai seri chi desidera parlare loro o addirittura concupirli. I giramondo occidentali, esperti di pettegolezzi e sensibili alla decadenza, lo sapevano bene: avevano letto e sperimentato tutto, indagavano intrighi dove certe atmosfere delinquenziali e vanitosamente malate addentano ai fianchi ridicoli visitatori allenati sui film di Russ Meyer e Zoltán Korda. Osborne, senza il minimo sforzo, intreccia riuscite stilistiche a autentiche sciagure da cui nessun protagonista e comprimario possono salvaguardarsi: pochi gli eroi, poche le eroine, se non uomini e donne ostinati, o intellettuali, o talmente presuntuosi da affogare dentro usi, costumi e tradimenti costantemente in primo piano nel momento della verità – inevitabile e rovinoso, sempre.
I fedeli di Osborne anche nel caso di The Forgiven (titolo originale di Nella polvere) dovranno parteggiare con chi custodisce qualche segreto negli occhi chiusi dietro il cappuccio abbassato del burnus, o con i visitatori che continuano a perdersi nei turbini polverosi dove proprio non dovrebbero stare.