Hong Kong. Un gwai lo, “fantasma bianco”, uno dei tanti di cui Lawrence Osborne ci parla nei suoi libri, si aggira nelle strade infiammate dalla rivolta “degli ombrelli”, in un tempo che le cronache precisano ma che in Java Road si scioglie in una zona grigia dove anime e corpi sono in bilico perpetuo.
“Cammini per strada nel sole di mezzogiorno e a un tratto ti accorgi che sul marciapiede la tua ombra non c’è”. I personaggi che sfiorano i muri del doppio gioco, dove l’esistenza appare sbilanciata a ogni svolta, abitano spesso le pagine dei romanzi dello scrittore londinese trapiantato in Oriente: le atmosfere delinquenziali si espandono in territori che respirano con i protagonisti, aumentando o togliendo la quantità di ossigeno e di sostanze tossiche. Tossici i rapporti, per giunta, fra – in questo caso – un giornalista inglese (Adrian Gyle) amante della cucina di quei locali che elargiscono aria condizionata artica e ravioli xiaolongbao, e l’amico miliardario (Jimmy Tang) sguazzante nell’alta società in crisi fra manifestanti e polizia. A caccia di belle ragazze e vino raro, ma immersi entrambi nel repentino cambio d’atmosfera della città.
Osborne li segue calcando le loro stesse impronte, le loro improbabili traduzioni del grande poeta della dinastia Tang, Li Bai (Li Po), in un gioco di rieducazione che attinge addirittura a Pound e alle sue famose versioni inglesi della “cattedrale nel paesaggio delle parole” cinese. E in sessioni politiche che si addentrano nei meandri del Partito comunista cinese, e nelle propagande americane. Gli occidentali sono meno che mai ben visti nel bailamme in cui si trovano immersi, una zona grigia dove non sembra accadere niente ma la verità è tutt’altra, sospinta da un tempo lentissimo e alla fine, al dunque, micidiale. Osborne ci guida col carattere straordinario della sua scrittura (assecondata come sempre dalla traduzione dell’ottima Mariagrazia Gini) in una storia dove l’attualità politica e mondana, nel miscuglio di inglese, cantonese e mandarino, colpisce al volto il giornalista, e fa sparire dal mondo Rebecca, ultima fiamma del rampollo Jimmy Tang, verso cui si rivolge l’interesse di Gyle non soltanto per ragioni giornalistiche.
Occasioni d’ingordigia non del tutto culinaria sono presenti in questo “nomade” di Java Road, strada dove tutto sembra incrociarsi, e le cose apparire e sparire nell’arco di un bagliore. Nei fumi dei candelotti Osborne stempera oppressioni, corteggiamenti, diversi generi di alcol, letterature e perfino delicatezze: tutta roba che l’Oriente trapassa in corpi sempre meno energici e corrotti dall’afa.
Java Road è piena di trame e trabocchetti, di pensieri più alti dei grattacieli e più bassi di un mare cosparso di isole ignote. Gyle sa che niente di onesto viene più trasmesso dai giornali televisivi, e sa pure che niente di onesto lui può trasmettere a chi lo conosce, lo odia o lo ignora. Approfitta dell’anestesia secernente la città, non lo turbano le sirene e l’elettricità che increspa l’etere. Forse i lupi lo costringeranno a ritornare a Londra. Ne sente l’odore. Se lui si percepisce senz’ombra, fantasma tra i fantasmi, al tempo stesso crede di intravedere lo spettro della ragazza, di Rebecca forse vittima del regime perché considerata sovversiva. Forse. Non bastano casco e maschera antigas per salvarsi la pelle: se Gyle si sente inviolabile perché invisibile, uguale status non può essere per tutti, men che meno per una giovane donna di buona famiglia coinvolta nei tumulti.
Sempre inseguito, nessuno mai lo contatta: stare sulla difensiva in quei territori non consente anonimato, e l’inganno dei sensi nei confronti della realtà è come una partita fra alcol e caffeina. Osborne conosce la storia da raccontare, chiacchiera da sempre con i luoghi dove qualcosa scricchiola e qualcuno perde la testa avendo già lasciato andare le debolezze del corpo agli eventi in cui è immerso.
L. Osborne su Pulp Magazine:
Il regno di vetro
Nella polvere
L’estate dei fantasmi
La ballata di un piccolo giocatore
Cacciatori nel buio