Gin tonic: quale mistero animistico vi alberga per anni e decenni dopo essersi intrufolato in barba a chi sostiene le ragioni dell’astinenza alcolica? Chiedere a Lawrence Osborne, la sua esperienza illumina coloro a cui brillano gli occhi tra il Circolo Polare Artico e le regioni dell’Indocina senza trascurare l’Africa.
Il viaggio inizia in Galleria a Milano e il nostro illustra la propria tradizione alcolica in attesa – al netto dello stordimento – di entrare nella scenografia di una presentazione libraria completa di intervista televisiva. Si orienta verso il cameriere in grado di offrirgli Gordon’s, tonica, cubetti di ghiaccio, e lime. Niente a che vedere con quella specie di “clinica di lusso” (pensa) dove si presentano decanter, cognac anonimi, fernet, angostura e olive marinate. Rimasto solo si industria per liberarsi dei beveraggi multicolori che quell’estate (anno imprecisato, ma rintracciabile facilmente) vanno per la maggiore, fra cui il temibile Bellini. Osborne ammira la Galleria e il suo creatore, Giuseppe Mengoni, morto un paio di giorni prima dell’inaugurazione nel 1877. Precipitato dalla cupola di vetro. Sotto la struttura ferrosa che ha ispirato la Torre Eiffel, la selva dei bar concupisce sciami di turisti mentre alcuni uomini, ben lungi dallo stordimento, si beano di spritz, Negroni sbagliato e ragazze carine.
Ed ecco la prima osservazione che profuma di proverbio – Eiffel, Parigi, Roland Barthes scrive: «in altri paesi si beve per ubriacarsi», ma è una conseguenza, intorno a lui Osborne vede chi partecipa al rito collettivo del bere, senza stramazzare a terra e con corrette (per il luogo) proporzioni di interesse sessuale. Mentre “entra” nel drink la sua attenzione vira verso arabi ricchi con mogli dal viso coperto, facoltosi ma non liberi, con le loro bottiglie di Perrier: sogna di imbattersi in un musulmano alcolista (fenomeno straordinario), ripensa a certi viaggi, per esempio nell’isola di Giava dove l’alcol è vietato ovunque. Ed ecco, dal primo capitolo di Santi e bevitori in poi Osborne narra dei suoi tentativi di far riposare il proprio spirito dalla dialettica del bevitore. In terre dove vivono seicentomila persone e non un solo bar: «mi sembra la ricetta della follia», pensa. L’avventura inizia in Galleria, alzando il gin tonic da quaranta euro e dicendo a voce alta “Inshallah” di fronte al milionario di Abu Dhabi: una bestemmia, certo, ma con l’unica conseguenza di far partire i ricordi.
Come vivono gli astemi? Per chi beve da quando nasce a quando muore, soggetto alle leggi della chimica, non può che aspettarsi un lungo viaggio, in regioni dove essere uccisi o rinchiusi in carceri di massima sicurezza è un lampo: nella “dolce” Islamabad bere mette i brividi, bar e simulacri di bar sono alla mercé di attentatori e obiettivi d’esplosioni micidiali. In Pakistan risulta sedizioso perfino un gin fruttato di produzione locale. Però il contrabbando del distillato satanico è fiorente, in pieno paradosso qui e altrove, non è semplice seguire le simbologie dei leader religiosi e i sogni proibiti con al centro l’Occidente e le sue droghe, bar compresi.
Ma l’enigma dell’alcol non finisce nemmeno in questo libro del 2013, nel corso dei diversi cammini, e bevendo in luoghi dove sono banditi i piaceri alcolici Osborne deve arrendersi alla propria natura, che si manifesta nell’amore del drink delle sei e dieci: la parola “alcol” è irrilevante di fronte allo stato d’animo in cui si trova la sera desiderando di bere con la propria madre. Si torna sempre dove si è partiti. Adulti e ragazzi, dentro l’aria della sera, fra alberi centenari, fumo di narghilè e popcorn. È una ventata di positività. È il Nordafrica, è il Cairo dov’è il bar “dei bar”, anche se il Windsor ora è inosservato dopo che si sono spente le voci di Lawrence d’Arabia e Omar Sharif. Al Windsor si ordina gin tonic ma, ahimè, quel giorno manca la tonica.