Bangkok ancora, nelle parole di Lawrence Osborne: “pazza, gentile, selvaggia, caotica, corrotta, serena, meticolosa, raffinata, sensuale, brutta e bella, tutto insieme. Come non adorarla?” Nelle memorie moderne dello scrittore, fughe, perdite, inganni, vite sovraccariche fino al punto della morte, si disperdono nel groviglio indistricabile e velenoso della natura. Quand’anche ci fossero umani nei dintorni (quando accade, appaiono come fantasmi dispersi nella manifattura orientale), solo i farang – i malvisti stranieri – hanno la peggio, vengono distrutti dalle virtù iperboliche di menti lucide e imperturbabili. In questo caso thailandesi, in una ragnatela di lingue e popolazioni che appaiono e scompaiono come fossero inventati e descritti dal miglior Ballard.
Ma la grande scrittura, ancora una volta, abita nel romanzo di Osborne, uscito nel 2020 con l’adescante titolo The Glass Kingdom: facile soddisfarsene già dalle prime righe, quando il lettore viene trasportato, senza avvertire, nel bel mezzo di un monsone con le cannonate di una tempesta in arrivo. Da diversi anni lo scrittore apparecchia disastri umani dentro le oscurità temporali sparse per il mondo, siano esse reperibili in Grecia, a Hong Kong e Macao o in Marocco, tanto che in ogni sito guai seri si spargono a macchia d’olio. Con protagonisti che tutto fanno tranne che togliersi di mezzo, fuggire di buona lena dai territori ostili.
Nel caso del Regno di vetro, la giovane truffaldina Sarah, dopo aver sottratto una bella somma alla grande scrittrice americana di cui era segretaria, ed essere sbarcata a Bangkok in fuga da New York, si ritrova invischiata in amicizie femminili che non sono quel che sembrano. Si ritrova a dover difendere una valigia di denaro nascosta sotto il letto (come d’uso in quegli ambienti) confidando in una falsa privacy smantellata in pochissimo tempo. All’interno del Kingdom, complesso residenziale d’alto bordo ma in fase di dissoluzione, le regole occidentali saltano: le pareti trasparenti delle quattro torri di ventuno piani, battute da inarrestabili piogge, occultano quanto basta agli ospiti occidentali e mostrano ciò che permette di fottere coloro che portano con sé una presunta superiorità. Di fatto una congenita debolezza esasperata dall’aria soffocante e condita d’eterna umidità vischiosa.
Riverenze, rituali misteriosi, “cortesie” per gli ospiti, svariate dosi di alcol cinesi e giapponesi, tè sospetti e marijuane tessono rapporti intimi che settimana dopo settimana trasportano ragazze più o meno avvenenti, uomini di oscura fama, inservienti premurosi ma di loschi fini, nel caotico habitat pluviale imbastardito dalle sommosse contro il regime. Le irregolarità spezzano continuamente l’atmosfera del Kingdom, fino a che alla concentrazione quasi estatica del thriller allestito da Osborne si aggiunge l’inquietante presenza di spettri stanziali che sarebbe bene lasciar stare poiché questi sono sempre pronti a trascinare gli stupidi farang nel gorgo mortale. Siano essi fantasmi primigeni mischiati ai corpi occidentali ormai trasformati in ombre trasparenti, siano varani il cui morso fa marcire la carne del malcapitato. Il romanzo è l’impietosa macchina che racchiude tutto e tutti in una fine del mondo, secondo il gioco eterno dei percorsi cari al denaro e al piacere, come se un delirio impeccabile trovasse conferma nei doveri del reale.
Sarah, le amiche, chi appare e poi scompare (soprattutto maschi di compunta eleganza con occhi puntati su sesso e denaro), gli strani incontri lungo le vie marcescenti che circondano il complesso residenziale, di fatto prigione sempre più inghiottita da pozze d’acqua nera, tutto viene compresso da Osborne nella personale indagine col consueto mirabolante stile verso cui va il nostro incondizionato interesse. Gli affanni sono addossati a chi si trova in balìa di trame oscure e di una natura scatenata e implacabile. Ecco come un autore cosmopolita, ma da sempre immerso nei mari del sud-est asiatico, sa come imprimere un segno permanente dentro la realtà che conosce bene e che ha saputo rendere propria. Realtà del tutto invaghita della sua prosa: sonora e miscelata alla stregua del miglior gin tonic.