Lawrence of the Mind

Lawrence Ferlinghetti, Little Boy, tr. Giada Diano, Edizioni Clichy, pp. 240, euro 17,00 stampa

Lawrence Ferlinghetti: padre della Beat Generation, ma di altre definizioni consanguinee e domestiche potremmo insignire il nostro poeta, editore, libraio, sotto i cieli della Frisco (San Francisco) tutta saliscendi, baia, visioni “vertiginose” di Hitchcock, e reminiscenze comunicative europee mescolate (non agitate) alla più tersa American Way of Life. Moltissime hits sono state sfoderate in Italia, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, intorno ai movimentati stili di vita (fra Rimbaud e legami multietnici) di questa combriccola d’avventurieri della parola e della strada. Raccolte, antologie, dalla pioniera Pivano ai numerosi aficionados dei tempi successivi. Come dimenticare Coney Island of the Mind (tradotto da Romano Giachetti), pubblicato nella leggendaria collana Fenice fondata da Guanda nel 1939?

Fra Italia e Francia, nei cromosomi del nostro infinito poeta centenario sono attivi gli interruttori e gli entusiasmi del memoir, più o meno biografico, caro a tanta parte degli scrittori europei e statunitensi. Little Boy, già annunciato da decenni è ora giunto negli scaffali italiani pochi mesi dopo la prima pubblicazione da parte della Doubleday: 29 marzo 2019, a cinque giorni dal centesimo compleanno dell’autore.

Situazioni nostalgiche a parte, la ricchezza poetica di Ferlinghetti ha avuto molto successo nella sua avita Europa, e ancora di più nel nostro paese, complici la cantabilità del verso e le assonanze con i testi dei nostri migliori “chansonnier”. Partecipe la Senna, che sembra perennemente sfociare davanti a New York o Los Angeles, invece che nella Manica. D’altronde si sa che l’Atlantico è calamita a tutti gli effetti, in un senso o nell’altro. Little Boy non chiude l’epopea di “Lorenzo”, anzi ne racchiude semi, storiografia, motteggi e arguzie, angeli custodi, scantinati e attici, gran giornate, cibi, avversità e gioie multicolori, in un’esplosione ritmica a cui ammiccano sornioni, dal paradiso dei Beat, Kerouac e Ginsberg. Ma qualcosa di tremendamente serio si fa largo nelle pagine del libro, ed è la sostanza succosa e massiva del tempo non bisognoso di essere ritrovato, essendo presente nella sua piena interezza in un unico e profittevole istante: tempo che contiene tutti i tempi, dove ritrovarsi ha lo stesso gusto di una birra mentre tutti insieme guardiamo l’Oceano, cari protagonisti delle migliaia di disegni e schizzi tracciati dal nostro. Più Joyce che Proust? Qualcosa del genere, condito con l’etica ginnica di un Laughlin, amico fraterno.

La scrittura di Ferlinghetti corre lungo le strade d’America registrando su nastro immagini e visioni, dialoghi ininterrotti su belle spiagge fra compagni etero che cercavano di far diventare gay amici stupendi (“Ginzy” Allen Ginsberg verso Ti Jean Kerouac). Senza mai dimenticare la parte buia del genere umano scivolante verso il precipizio e le varie frodi del cuore lasciate sul campo dai più stupidi inquilini. Ma i talenti che firmavano libri alla City Lights erano la coscienza superiore dell’universo tanto amato dal nostro nomade dello spirito.

A Giada Diano, fedele collaboratrice, si deve l’edizione italiana di Little Boy, seguita personalmente dall’autore che non ha mancato di commentare come i “Little Boy” siano ovunque nel mondo. Seduti al grande bar della vita, aggiungiamo, in vista di quel che accadrà mentre una “giovane madre snella” passeggia sulla strada e qualcuno sta sicuramente tramando qualcosa.