Dietro ai libri in vetrina l’editoria è la macchina che assorbe oggi il lavoro intellettuale sempre più avventuroso e precario di migliaia di lavoratori della conoscenza. Con questo articolo inizia la nostra inchiesta attraverso l’editoria e il lavoro culturale in Italia, a partire dalla “materia prima”, la scrittura, e il suo primo protagonista: l’autore che vuole esordire.
Lontano dal paradiso
Nel mondo editoriale la figura più invisa è quella dello scrittore. La più dileggiata (o guardata con intenerito paternalismo) quella dello scrittore aspirante esordiente perché, si sa: chi non ha un romanzo due o anche dieci nel cassetto? Italiani popolo di non lettori ma di scrittori compulsivi! Fiera dopo fiera, timido o protervo, sognante e improvvido, lo scrittore aspirante esordiente traballa tra stand e stand, lo zaino carico di manoscritti da proporre, dopo averli affidati (vanamente e per circa un paio d’anni) alla casella proposte che ammicca nelle homepage delle case editrici ovvero l’isola prima del naufragio. Ma come l’aspirante ben sa di miraggio di tratta: che l’editoria maggiore (e con essa quella piccola e media di cosiddetta qualità) non trova mai (o quasi mai) le risorse e le forze per affrontare quel filone aureo. Filone aureo: figurarsi. Chissà quanta merda si nasconde lì dentro, sogghigna velenoso più d’uno, perché duro e a morire è il pregiudizio per cui se non sei nel sistema (o non hai amicizie che ti introducano) sei ‘naturalmente’ privo di meriti. E se ti riduci a spedire i libri così, alla casella proposte o addirittura a portarteli nello zaino stampati rilegati e tutto, be’, è evidente che non solo non sei del giro, ma stai nel girone più lontano dal paradiso.
I sommersi e i salvati
Non ce n’è, funziona così: i ‘salvati’ guardano i ‘sommersi’ con sufficienza (dilettanti); la più grande mancanza dello scrittore aspirante infatti è quella di non possedere un capitale sociale e la spregiudicatezza di chi si ‘sa muovere’ per costruirselo. Sapersi muovere, è noto, significa trovare e conservare gelosamente i contatti giusti e coltivarli con un certo gusto: pena l’inferno del kitsch e della caricatura. Ma lo scrittore (prima di essere pubblicato) è sempre una caricatura, con la sua cerchia di affezionati (genio incompreso) e di detrattori (montato, ridicolo). Solo la pubblicazione su carta santifica e invera lo status: certifica la vocazione e può mutare lo sguardo di chi (malfidenti) lo ha sempre sottovaluto (tiè): visto che pinocchio era ‘sostanzialmente’ un bel bambino? E voi che non gli credevate.
Il gatto-volpe
Fino a qualche tempo fa per il pinocchio nello zaino c’erano ben poche speranze di realizzare la propria aspirazione e gli scrittori aspiranti finivano spesso, per ingenuità e ignoranza del sistema, nelle grinfie dell’editoria a pagamento, suadente come il gatto e la volpe e altrettanto affidabile. Si potrebbero costruire cattedrali con le copie che troppi autori hanno acquistato per finanziarsi le bramate pubblicazioni. Ma dopo il primo orgasmo di fronte al parallelepipedo (o alla colonna di essi, recapitata a domicilio dopo esborso di numerosi zecchini) gran parte degli autori realizzavano di non essere distribuiti, di non avere nessuna promozione stampa: in pratica di non esistere. Si è scritto al passato ma va letto al presente.
Self Help? Self publishing!
Oggi l’editoria a pagamento è sempre in ottima forma ma le prospettive si sono allargate: la possibilità di pubblicare in self-publishing persuade molti aspiranti a esordire senza bisogno di attese e mediazioni. C’è chi ritiene che questo mercato (senz’altro in crescita) sia il rifugio di chi ha fretta, poche competenze e troppa, ingenua, ambizione, ma è presto per dichiarare con Andrew Wylie (il più noto agente letterario internazionale) che: “Lo scrittore fai-da-te è l’equivalente di chi canta sotto la doccia. In genere si tratta di scrittori che non meritano editori seri” (fonte La Repubblica); Chi può dire che questa scelta sia frutto soltanto di narcisismo delittuoso e non magari espressione di un approccio auto imprenditoriale favorito dai meccanismi della rete? Certo è che, ad oggi, i casi di ‘clamoroso successo’ in questo settore sono ancora piuttosto limitati (soprattutto in Italia). Circa la qualità dei prodotti poi, con buona pace di Wylie, difficile giudicarli mediocri tout court perché le gocce del mare tutte si assomigliano; restando nella metafora di chi canta sotto la doccia, chi può sapere se là sotto (sotto il getto, si intende) non ci siano ugole più degne di nota di quelle che vengono selezionate (e prontamente piallate) dal baraccone di X Factor?
A prescindere da considerazioni amene il fenomeno del self publishing, per quanto in espansione, non ha ancora contagiato la grossa parte degli aspiranti scrittori che, tuttora, puntano sull’editoria ‘vera’, possibilmente di carta (estensione Ebook a corollario).
Agente speciale
Se fino a una decina di anni fa la richiesta più frequente nei forum per scrittori era quella mirata a individuare editori validi (non a pagamento) oggi la domanda è: “Agenzie editoriali: di chi posso fidarmi?”. Anche il più sprovveduto degli aspiranti sa infatti che per scalfire il muro dell’editoria c’è bisogno della testa d’ariete delle agenzie letterarie. Il tenero, acerbo sogno dell’aspirante che fantastica di trovare, dopo duro calvario, l’editore che gli spalanca porta, braccia e saccoccia (credo in te, figliola\o) si è infranto contro gli scogli taglienti del pragmatismo. E l’agenzia di rappresentanza questo incarna: pragmatismo e ‘professionalità’.
Nell’ultimo ventennio, grossomodo, agenzie letterarie sono spuntate come funghi dal micelio di una domanda editoriale sempre più orientata (per ragioni di risparmio, almeno inizialmente), a scovare scrittori italiani, invertendo il trend ‘esterofilo’ che aveva dominato il mercato fino alla svolta del millennio. (Un discorso analogo si potrebbe fare per le scuole di scrittura più o meno creativa, da cui spesso l’aspirante proviene e da cui trae linfa per la sua autostima).
Lavoro dell’agente era, nei tempi antichi, quello di tutelare gli interessi degli autori già noti, valorizzare, quando possibile, autori minori, scovare autori nuovi: le perle nascoste come si suol dire. Oggi l’impressionante marea di scrittori (o aspiranti tali) ha convinto le agenzie (senz’altro la maggior parte) a praticare servizi editoriali cuciti su misura dell’aspirante: si va da una valutazione rapida a una proposta di editing approfondito “eseguito da professionisti”. Servizi differenziati, variamente modulati, costosi sempre, utili: forse. Alle agenzie letterarie, si affiancano agenzie di servizi editoriali, scrittori più o meno noti e battitori liberi di varia provenienza, e tutti si impegnano a fornire editing ‘professionali’ a costi variabili, senza alcuna garanzia di traghettare l’aspirante verso la meta, ma con la promessa di un restyling dignitoso che consenta al libro di viaggiare con le gambe sue, dove non si sa.
Comunque vengano declinati i servizi (i toni sono spesso suadenti) è difficile individuare in queste pratiche un genuino spirito di servizio. Si tratta evidentemente di strategie di sopravvivenza, più che comprensibili visto come gira il mercato, ma che suscitano una domanda semplice e definitiva: se un’agenzia di rappresentanza è capace di rendere un libro ‘potabile’ per stare sul mercato, perché poi non se lo prende in carico? La risposta è fin troppo ovvia: anche ‘ristrutturato’ da mani professionali, un libro funziona o non funziona (e, a prescindere dal minimo sindacale in termini di qualità, struttura e controllo dei personaggi, ha o non ha l’appeal che gli consentirebbe di stare sul mercato). In questo, è vero, nessuno dei soggetti sopracitati vende fumo: la proposta, al netto degli eufemismi con cui viene confezionata, è onesta (bimbo, qua non vendiamo sogni) ma è proprio la sua nuda onestà a esplicitarne carattere meramente lucrativo.
Ma non è ciò a disorientare l’aspirante quanto la difficoltà a discriminare se le proposte di cui sopra rappresentino un varco o soltanto una porta destinata ad aprirsi su altre porte in un’estenuante mise en abyme. Esperienza questa che l’aspirante militante, del resto, conosce bene: i filtri che lo separano dalla pubblicazione hanno tutti una natura bifronte: da un lato aprono prospettive dall’altra allontanano la meta.
In questo gioco in cui i filtri si moltiplicano e la meta si sposta ad ogni passo gli scrittori determinati ad esordire sono diventati (consapevolmente?) essi stessi un mercato. (Al pari di tante altre figure che aspirano trovare una professione nel mondo editoriale. Ma questa come si dice in gergo, è un’altra storia)
Poveri ma belli
Bando ai moralismi: pecunia non olet e di pecunia nel mondo delle arti (ammettendo che la narrativa rientri nel novero, se non altro per senso comune) ne gira poca; non sarà etico, ma è fatale che in un mercato in cui l’offerta supera di gran lunga la domanda, prima o poi qualcuno diventi il gatto\volpe di qualcun altro. Ci sta. Quello che ‘non ci sta’ è che un universo franto tenga insieme i pezzi delle sue contraddizioni con il bostik della melassa: ah, l’arte, la cultura, perdiana, il cibo dell’anima! Festival su festival, fiera su fiera: mentre i soggetti della filiera tutta si precarizzano e si impoveriscono (e con loro la qualità e la varietà dell’offerta) le retoriche si gonfiano: eleggendo scrittori e lettori a esercito glorioso (e straccione) votato a difendere l’avamposto dello spirito. Certo che se poi si va a guardare da vicino l’avamposto dello ‘spirito’ ci si domanda: perché farsi esercito?
L’invasione degli ultracorpi e la retroguardia dello spirito
L’avamposto dello spirito (o meglio la rua retroguardia) non è un posto particolarmente romantico; al contrario di ciò che si proclama con la grancassa, c’è consapevolezza condivisa che gran parte della produzione editoriale è improntata al cinismo e portata a espungere sperimentazione, ricerca, originalità: non per disegno oscuro, semplicemente perché non vendono. Questo lo sa l’editore, l’agente, e persino l’aspirante esordiente. A un libro non viene richiesta originalità (novelli Gadda: rassegnatevi) ma capacità di ‘stare sul mercato’: una qualità che si manifesta proprio a partire dalla negazione dell’originalità, configurandosi il successo (e quindi le vendite) come fenomeno di assonanze. Solo quello che assomiglia al già noto ha infatti buone chance di funzionare (anche se non è affatto detto, così come non è detto che un romanziere originale non possa prima o poi spuntarla). In questo sembra che l’universo della selezione editoriale (a tutti i livelli e da almeno vent’anni) abbia anticipato il famigerato algoritmo di Netflix: plasmando il gusto sull’abitudine e l’abitudine sul prodotto già sperimentato con successo.
Più di un segnale suggerisce che stia plasmando anche gli autori (aspiranti, esordienti, e celebrati) in una catena infinita di piccoli specchi; e non si capisce più se lo scrittore (aspirante o meno) abbia gettato la spugna (dell’originalità) o aspiri, per contagio, a intrecciare le danze con la brigata dei cloni.