Fake accounts è il primo romanzo di Lauren Oyler, critica letteraria (tra gli altri, per New Yorker, London Review of Books e Harper’s Magazine) nota soprattutto per le spietate stroncature di celebri “casi letterari” – da Jia Tolentino a Sally Rooner, per citarne solo due. Ci si poteva dunque aspettare che a qualcuno venisse voglia di “restituire il favore” parlando male della sua opera. E invece.
Fake accounts è stato accolto da un coro di critiche positive, e il motivo principale va cercato, oltre che nell’indubbia padronanza del mezzo letterario da parte dell’autrice, nel fatto che il romanzo mette il lettore di fronte a qualcosa di intrinsecamente nuovo, almeno per quanto riguarda il mercato editoriale più tradizionale. Se ormai siamo da tempo abituati al fatto che i social media – e i relativi dispositivi che ne consentono l’accesso – siano entrati a far parte integrante delle narrazioni cinematografiche della contemporaneità, e in particolare delle serie televisive, dove è del tutto normale che i protagonisti interagiscano non solo di persona ma anche, spesso in egual misura, tramite un cellulare, in letteratura il mondo dei social non ha ancora assunto quella naturalezza; si tratta ancora, nella maggior parte dei casi, di un elemento che, per quanto sempre più presente, spesso stride nel contesto narrativo, assumendo un tono macchinoso e perdendo il suo carattere principale, l’immediatezza.
La svolta di Oyler consiste precisamente nell’integrare tutto il mondo di internet e dei social – dai tweet a instagram passando per i siti di affitti brevi allo shopping compulsivo on line fino alle app per incontri, che hanno un ruolo particolare nella trama – in modo del tutto naturale all’interno della narrazione, perché è la narrazione stessa a plasmarsi intorno a un linguaggio nuovo, che fonde e ingloba in se stesso gli stimoli e gli strumenti – vecchi e nuovi, letterari, affettivi o politici – che fanno parte della complessità contemporanea, e sono, tutti indistintamente, necessari se non a comprenderla, quanto meno a descriverla.
La protagonista di Fake accounts, giovane blogger newyorkese la cui vita si svolge tanto off line che on line, scopre che il fidanzato Felix ha una doppia vita sui social, o meglio, finge di non frequentarli quando invece possiede un seguito account complottista. Sconvolta da quanto appreso – ma più che altro sentendosi ingannata su quello che riteneva essere il suo terreno, la Rete – decide di lasciarlo. Una fatalità le sconvolge i piani e, ritrovandosi sola, decide di tornare a Berlino, dove aveva conosciuto Felix. Nella capitale tedesca si immerge nel mondo degli expat e, tramite una app, incontra uomini a cui racconterà storie sempre diverse di sé stessa, presa in una sorta di vortice che trascina, confondendole per sempre, realtà concreta e virtuale. La domanda di fondo, tutt’altro che banale se declinata nell’oggi più contemporaneo, è: quando iniziamo, e quando smettiamo di esistere? Con tutti i suoi corollari: quanto influisce la nostra identità online sulla nostra “vita vera”? Che fine fanno i sentimenti, e la fiducia, in un mondo dove quel che conta non sembra più essere il vissuto ma il racconto che ne facciamo? Che ruolo ha – o può avere – la letteratura in questo terreno tanto fragile?
Leggere Oyster è un’esperienza a tratti elettrizzante a tratti spiazzante, un’immersione totale nelle profondità di uno stile diretto e tremendamente lucido, brillante, ironico, spericolato, divertente e drammatico oltre che sentitamente, essenzialmente attuale.
“Cosa possiamo imparare dalla letteratura”, si chiede la protagonista, “A volte le cose possono dare l’impressione di andare avanti per sempre, ma in realtà sono state lunghe solo una quarantina di pagine.”