La tecnologia, spesso vissuta come entità impalpabile, non viene quasi mai associata al corpo e alla sua trasformazione. Gender Tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne ci restituisce invece una storia – o meglio una genealogia – di quelle tecnologie che hanno accompagnato le mutazioni sociali e fisiche del corpo delle donne. L’autrice sceglie di iniziare la sua indagine sulle tecnologie di genere dalla strumentazione pseudoscientifica utilizzata per l’individuazione di ectoplasmi o per lo svelamento di fenomeni paranormali, nel periodo che va dal 1860 al 1914. Sono gli anni in cui all’ospedale Salpêtrière, il neurologo francese Jean-Martin Charcot porta avanti i sui studi sull’isteria (patologia emblematica), tentativo da parte della scienza di addomesticare le donne anticonformiste attraverso il dominio sul loro corpo, messo in scena e sottoposto a sperimentazioni al limite della tortura. Secondo Tripaldi, nella stessa epoca, altre donne trovavano invece una particolare via di fuga a questa forma di controllo, legando la loro esistenza all’evocazione di ectoplasmi, sfidando l’ordine del discorso di una biopolitica che muoveva i suoi primi passi.
Con competenza scientifica e capacità divulgativa l’autrice continua nella ricostruzione storica del percorso di altre tecnologie, senza dimenticare il relativo dibattito politico interno del femminismo. Ci guida attraverso tecniche che da prima modificano materialmente il corpo nei suoi processi biochimici, come la pillola contraccettiva, per passare attraverso i test di gravidanza, le ecografie o le interfacce di period tracking, che diventano sempre più impalpabili, in cui il corpo si fa superficie passiva su cui agisce il dispositivo tecnologico.
Tripaldi ci ricorda come queste tecnologie mettano in crisi la distinzione tra natura e cultura, e ci svela come “tra la biologia e la società […] c’è un vasto territorio di confine: uno spazio in cui la separazione tra il genere come costruzione sociale e il sesso come dato biologico diventa profondamente ambigua”. In questo spazio individua la possibilità di dare voce a ciò che sfugge alla significazione, ciò che rimane ai margini perché non allineato con il discorso dominante. Una possibilità che già Teresa De Lauretis nel saggio del 1987 – Technologies of Gender – aveva posto in termini foucaultiani. Tripaldi posiziona il discorso in un contesto contemporaneo, il cui limite forse è la poca attenzione al dibattito femminista europeo sul tema.
Importante nel testo è lo svelamento dell’autoritarismo nelle parole e nelle narrazioni che accompagnano queste tecnologie. Nel tentativo di controllo sul corpo delle donne spesso lo si riduce alla funzionalità di un organo o lo si cancella in favore di un ideale essere non ancora nato. Nonostante le retoriche di tutela della vita e di fertilità riproduttiva, Tripaldi sottolinea però come le stesse tecnologie abbiano segnato l’inizio di un processo di liberazione importante per le donne, purtroppo non trasversale alle differenti condizioni economiche e sociali.
L’autrice torna infine a ribadire la forza dirompente degli studi sugli ectoplasmi, come pratica di “materializzazione di corpi” eccentrici che agiscono nell’insieme dei processi storici, culturali, biochimici e medici. Una proposta tutt’altro che in contrasto con la scienza contemporanea che produce in continuazione nuovi corpi prima sconosciuti. Una proposta di indagine, non intrinsecamente rivoluzionaria, ma in grado di gettare luce su ciò che rimane invisibile.