Anne intende sgrovigliare la propria vita durante un anno sabbatico, con numerosi tentativi di suonare il pianoforte che l’attende in una stanza, di completare la stesura di un manuale di musica, mentre i pensieri sono spesso rivolti, nei rari momenti di visione lucida, ai suoi studenti, ai ragazzi che poca voglia hanno di sottostare alle regole dello spartito. Ma la storia di Anne, nella nebbia dei sospetti verso il marito Thomas, e nella nebbia avvolgente il panorama di interni e di esterni descritto nel romanzo di Laura Freudenthaler, contiene numerosi spazi vacanti e disarmonie che per nulla aiutano la protagonista a sollevarsi dal torpore.
Sarà che non basta assuefarsi a un comune ménage à trois, in cui gli attori imbastiscono un comunissimo teatro di giornate noiose e tradimenti venuti a galla da tasche riempite di scontrini rivelatori di colazioni e cene clandestine. Sarà che Anne e Thomas si muovono in una perenne bolla di spazi talvolta casuali, ma più spesso forieri di congetture mai provate e un’atmosfera destrutturata, blandamente irritante nella sua perenne sostanza brumosa. La “ragazza” che sempre più appare dietro una tenda, o al di là di una finestra semioscura, sulla soglia di qualcosa mai del tutto presente agli occhi di Anne, è l’amante che resta su un altro piano di realtà, o la spaventosa immagine di un’ombra del tutto simile alla protagonista narrante? Entrambi (forse) fantasmi in un mondo che l’autrice mostra diafano, riflesso, indistinto e probabilmente incompleto.
Il fascino di questo romanzo sta nell’affabulare una materia sfuggente, da cui emerge una relazione quasi “per caso” condensata fra modernità e gotico, pur sapendo che Freudenthaler nulla lascia alle coincidenze e con meravigliosa ostinazione porta il racconto a un compimento in cui il “doppio” si apparta dentro il lettore e ne condiziona il tempo. Poiché il tempo sembra svanire dentro il libro e, per riflesso, nella realtà esterna. Accadono indizi, guidati non senza turbamento dai pensieri di Anne: talvolta anch’ella dilegua in quel mondo contagiato da presentimenti più che da avvenimenti. Potremmo avvicinarci a interpretazioni psicanalitiche o a sedute letterarie evocanti Wuthering Heights o addirittura Hoffmann, ma così come fa l’autrice (che evita facili citazioni) meglio seguire l’agilità di Anne sui tasti bianchi e neri del pianoforte – piccola oasi di materialità non avversa – che agguantare (come se fosse possibile) le condensazioni di incantesimi visivi.
La “ragazza”, compagna nell’altra vita di Thomas, o ciò che Anne ritiene tale, si ribella alla figura straniante in cui la vogliono prigioniera: in certi casi la sua volontà d’indagine è addirittura superiore a quella della protagonista, mentre quest’ultima vaga nella nebbia cittadina, tale da rendere irriconoscibili strade e quartieri, e irriconoscibili ricordi e desideri. I confini, a quel punto, scompaiono, si trasformano in qualcosa di diverso, così come alloggi e corpi cambiano natura in certi racconti di Ballard puntualmente ricordati nella lucidissima (da non eludere) nota finale della traduttrice Paola Del Zoppo.
I mille rivoli del destino sembrano sciogliersi nella nebbia onnipresente, anche le dolcezze presentite (forse vissute?) virano nella dinamica fantastica della città mitteleuropea, e meno che mai capace di definirsi centro sicuro. C’è un’impotenza storica nei personaggi del racconto, come girassero su sé stessi in attesa della fine di un (più o meno simboleggiante) sogno. Bisogna essere grati a una traduzione che ha evitato di trasformare il romanzo in una (possibile) lezione di “oggettività” (si perdoni l’ossimoro) onirica: o peggio, interpretativa. Se qualcosa di concreto, perennemente percepibile, è presente nell’opera – raggiunto lasciando che s’impossessi della nostra attenzione –, va ricondotto alla concretissima nebbia di cui ogni cosa è composta, protagonisti compresi.