L’arte della gioia di Goliarda Sapienza mini serie TV

L’arte della gioia, romanzo uscito postumo di Goliarda Sapienza e ora mini serie TV (Sky) diretta da Valeria Golino, racconta la vita di Modesta, donna nata poverissima che combatte per conquistare libertà, sapere e felicità. È un’opera potente, ribelle, piena di passione, che intreccia femminismo, lotta di classe e ricerca della gioia contro ogni destino imposto. La serie mantiene la radicalità del libro senza edulcorazioni, restituendo una figura femminile complessa, tragica e luminosa.

L’arte della gioia (Einaudi, 2008) è un’arte (o una guerra?) difficile da imparare, ma l’unica per cui vale la pena vivere!  Il romanzo più importante di Goliarda Sapienza è un “romanzaccio”, scritto bene ma anche male: buttato là, a volte corre e va veloce, a volte si ingarbuglia e chi legge deve ritrovare il filo. Una biografia immaginaria, un libro di avventure da leggere tutto di un fiato, pieno di bellissime parole siciliane che si sentono anche nella mini-serie tv con la regia di Valeria Golino. Ma non come ne La terra trema (1948) di Visconti. Questo è chiaro e sarebbe assurdo il contrario. Non si ha bisogno di sottotitoli per vedere i sei episodi della serie appena uscita su Sky Atlantic. Non è più tempo di militanze con film di politici e intellettuali legati al Partito. La serie di Golino è da questo punto di vista sguarnita e pallida eco dei garbugli del Novecento di cui pure il romanzo di Sapienza è a sua volta eco.

E chissà se la scrittrice – che con il cinema aveva a che fare sia come attrice che per essere stata per lunghi anni la compagna del regista Citto Maselli e in Senso (1954) aveva fatto una piccola comparsata – pensava a Visconti e al suo film siciliano mentre scriveva il suo romanzo pieno di lotta di classe ma anche di rivolta individuale tanto quanto la rilettura di Verga fatta da Visconti. Perché il romanzo è ripieno di tutti i luoghi che fanno il Novecento italiano e non; quindi, naturalmente, la “lotta di classe” e il rapporto fra il singolo e le proprie condizioni sociali occupano un posto privilegiato.

Ma andiamo al racconto: il romanzo è la storia di Modesta – un nome opposto a Goliarda ma pur sempre stupefacente! Nata poverissima e derelitta e donna, impegna tutto il suo essere per cercare la gioia, oltre il destino prefissato, oltre le regole date. Perché quello che si chiama destino è: “(…) una volontà inconsapevole di continuare quella che per anni ci hanno insinuato, imposto, ripetuto essere la sola giusta strada da seguire.

Gli esercizi di ricerca della felicità di Modesta fanno venire in mente gli esercizi per sopportare il dolore dei gemelli della Trilogia della città di K di Agota Kristof, ma il tutto rovesciato. Là dove in Kristof sta il negativo in Sapienza abita il positivo. In ogni caso essere felici e cercare l’intelligenza delle cose è un lavoro impegnativo. L’apprendistato prevede e passa attraverso cattive qualità. Una analitica rigorosa e che non concede sconti.

Rubare Il sapere per una donna per di più nata povera si deve letteralmente rubare. È quel che farà Modesta nel collegio dove viene rinchiusa da ragazzina e dove impara la musica (ma non nella serie). E che fa anche Sapienza che proprio per furto finirà a Rebibbia nei primi anni ’70 (L’università di Rebibbia, Rizzoli, 1983). “I contorni di quelle note che sotto la pressione delle dita si stampavano fra le righe, intrappolate lì, nessuno me le avrebbe più sottratte. Erano mie, rubate come gli aggettivi, i sostantivi, i verbi, gli avverbi…

Dissimulare È sbagliatissimo dire alle suore quel che davvero si pensa! Modesta se ne accorge sulla sua pelle e anche “desiderare di tornare a un passato che non può più esistere è un tranello sentimentale che può costarti caro”. Anche in casa della principessa Gaia Brandiforti – continua a ripetere fra sé e sé la Modesta di Golino – si deve sempre dissimulare.

Non pentirsi Non cadere nella nostalgia, non voler tornare al passato. Piuttosto studiarlo, il passato, e farsene una forza per il futuro. “Altro che pentirmi, dovevo studiare me stessa e gli altri come si studia la grammatica, la musica, (…).

L’arte della gioia è un trattato sulle passioni e segnatamente sull’odio. La passione di questi tempi post-Novecento e ‘pacifisti’ più calunniata e negletta, quella che fa più paura. Ma se non odi e non sei “per te”, non puoi neanche scegliere chi amare, ci dice Goliarda. L’odio ci insegna a essere di parte, a scegliere il proprio posto. “Impensatamente quell’emozione di odio – che loro [le suore] dicevano peccato – mi diede una sferzata di gioia così forte che dovetti stringere i pugni e le labbra per non mettermi a cantare e a correre. (…) La corazza di malinconia si staccava a pezzi dal mio corpo, il torace si allargava scosso dall’energia di quel sentimento“.

Valeria Golino in scene molto belle fa più volte girare su se stessa Modesta, quando – diventata adolescente nel convento – viene avvolta in lunghissime fasce di lino con sensualità trattenuta dalla madre superiora Lenora (Jasmine Trinca), del tutto inconsapevolmente sedotta dalla sua giovane protetta o quando la stessa Modesta più volte si arrotola per gioco fra le trasparenze delle tende e delle lenzuola stese o si toglie le fasce per non rimettersele più allorché si lascia alle spalle il convento e liberamente – finalmente – può fare l’amore.

L’odio è la parola per combattere, un esercizio di salute, una incarnazione. L’odio e il sapere per conquistare il mondo, la propria libertà, la gioia. La parola opposta a odio è amore. Anche questa una parola da decostruire. “Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte“. E quindi ecco Modesta impegnata a fare un lavoro certosino di riconquista delle parole e del loro vero significato.

L’arte della gioia è un trattato sulla libertà. Carmine, uno degli uomini amati da Modesta, quando nel romanzo sta per morire, si fa promettere che lei non guarderà il suo corpo morto. Modesta promette e appena Carmine muore lo guarda perché è importante essere fedeli ai vivi ma non ai morti. Non è la memoria morta, la tradizione che ti incatena, ciò a cui si deve fedeltà ma il presente, i vivi, quelli che hanno a che fare con te adesso e qui. A loro devi fedeltà e verità.

L’arte della gioia è un manuale per le mamme! Che non sono né buone né cattive. Perché sono buone quando possono esserlo e cattive quando si devono difendere o devono difendere i loro figli. Oltre tutto i poveri non hanno tempo per esser buoni, ci ricorda Modesta, che lo sa bene visto che è nata povera e la sua mamma non l’ha mai difesa.

L’arte della gioia intreccia anche il femminismo con cui Sapienza discute, si arrabbia, condivide e mette in questione. Dal Novecento prende a prestito saperi a volte solo orecchiati e li butta tutti dentro il calderone. Modesta e con lei Goliarda non hanno tempo di sapere tutto per filo e per segno perché l’urgenza e la necessità del proprio procedere se ne fregano delle precisioni filologiche e dottorali. “È il pieno possesso delle emozioni e la conoscenza suprema di ogni attimo prezioso che la vita ti concede in premio se hai polso fermo e coraggio…” E per il resto: “(…) Cesare, Cesare Giulio dico, quando non sapeva che pesci piglià s’addormentava“.

Rubare, dissimulare, non pentirsi, odiare, amare e anche fregarsene o insomma essere un po’ superficiale ed egoista è quello che ricordo perfettamente di Modesta a vent’anni di distanza dalla lettura del libro che mi era venuto incontro su una bancarella nella “nuova edizione con album fotografico” di Stampa Alternativa del 2006. Goliarda Sapienza nella foto della copertina è bella ma anche un po’ fragile e mesta già al di là della giovinezza. Non sapevo chi fosse ma la foto mi ha attirato e tornata a casa ho letto un romanzone di quasi 600 pagine del quale non avevo mai sentito parlare.

Ora la serie mi sorprende perché scopro o riscopro, ma in ogni caso avevo completamente dimenticato, che Modesta sic et sempliciter uccide chi le fa del male e chi si mette sul suo cammino. In sostanza è una serial killer! Evidentemente non l’avevo messo a fuoco e non ne ho mai sentito parlare anche quando il libro è diventato via via più famoso perché l’esercizio della violenza – l’omicidio insomma – così come raccontato nel romanzo di Goliarda Sapienza è un atto vitale, di sopravvivenza, di resistenza. E quindi di fatto un atto di giustizia. Anche Valeria Golino – nella serie – mi pare che così lo legga e che non aggiunga punti di vista o riflessioni postume restando fedele al libro.

Lo stupro della piccola Modesta da parte del padre mi pare la scena più paradigmatica della fedeltà della regista all’opera e all’autrice de L’arte della gioia. La piccola Modesta infatti non vive questo stupro da vittima. Si vendicherà del padre e anche della madre e della povera e del tutto innocente sorella handicappata, ma lo farà quasi senza riflettere, addirittura con leggerezza. Lo stupro tornerà come flashback nel corso del tempo e degli episodi della serie ma senza un rilievo esorbitante rispetto ad altri fatti della sua infanzia povera. Significativo poi che il padre sia un ragazzo bello e giocoso, che fra padre e figlia scorra una evidente forte simpatia e complicità contro la madre e la sorella sgraziata.  Lo stupro avviene nella luce di un pomeriggio molto bello e caldo e il corpo nudo della piccola Modesta che scavalca il padre addormentato per andare da sola incontro al mondo è toccante.  Una violenza che sembra stare nell’ordine delle cose e delle relazioni, quasi naturale.

Trovo molto intelligente questo “fermarsi” della regista e rispettare quello che l’autrice con molta probabilità sentiva e pensava dello stupro. In Lettera aperta (Sellerio, 1997) Sapienza rimprovera in modo molto preciso la propria madre per essere stata assente e non averla difesa ma del padre fa solo intendere di essere stata stuprata e colpisce vedere le foto dell’allora famoso avvocato al braccio della propria giovane figlia sorridente per le vie di Palermo. Che la vita delle donne della generazione di Sapienza (1924-1996) fosse del tutto intrecciata con la violenza patriarcale maschile della quale non era facile mettere a fuoco la sistematicità strutturale è terribilmente testimoniato da un video della scrittrice – facilmente rinvenibile su Youtube – nel quale parla della violenza sessuale subita dallo scrittore Milan Kundera senza riconoscerne affatto il carattere di sopraffazione.

Il fatto che Modesta sia nata il 1° gennaio 1900 non è un caso. Non solo l’ambiente, gli uomini, le abitudini e le classi sociali sono del tutto novecentesche ma anche la figura della protagonista e le vie del proprio emanciparsi e condurre una guerra per uscire dalla propria doppia subalternità. Come classe e come donna. L’arte della gioia è un romanzo del Novecento anche perché è un romanzo che guarda avanti, che cerca la felicità. Modesta – e con lei tutte le donne povere – avevano in ogni caso un mondo da conquistare. A differenza dei nobili. Non a caso la principessa Gaia Brandiforti quando finisce la guerra e i paesani festeggiano nel cortile del palazzo griderà che la guerra non è mai finita per la nobile famiglia e per lei che ha perso il figlio preferito in guerra. Nella serie tv la regista neanche ci prova a rileggere la figura di Modesta e penso che questo suo restare fedele al romanzo senza volerlo a tutti i costi “attualizzare” sia stata una scelta giusta. Insomma c’era una volta una vita e una condizione così e le donne per sopravvivere dovevano condursi così. L’arte della guerra (della gioia) era quella e il fine giustificava i mezzi; l’inclusione, la cura ma anche la malinconia di un futuro che manca erano al di là da venire.

Nell’ottimo cast spicca il profilo bellissimo e caprino di Viviana Mocciaro che interpreta una Modesta bambina piena di vita e intelligenza curiosa in una situazione di assoluta deprivazione, e naturalmente Valeria Bruni Tedeschi nella parte della principessa Gaia Brandiforti; un’attrice così brava da riuscire a temperare la propria verve leggendaria senza timore di apparire sia vecchia che sotto le righe. Tutti i personaggi sono molto ben scelti, compresa la Sicilia. Ma si sa le serie e i film li finanziano le Regioni per vendere il proprio paesaggio. Valeria Golino sotto questo aspetto è stata, mi pare, misurata. Invece a essere dispettose – come lo sono sempre state Goliarda e la sua creatura Modesta – ci si può però chiedere che senso abbia oggi fare e vedere una serie come questa che mette in fila e in bella mostra insieme all’Ufficio turismo i paradigmi del Novecento che a volte diventavano credenze fin troppo sempliciotte.