Le recenti quanto improvvise scomparse del giornalista Paolo Finzi e dell’antropologo statunitense David Graeber hanno fornito ai media un’occasione davvero eccezionale: quella di poter finalmente utilizzare le aggettivazioni del sostantivo “anarchia” in modo appropriato.
Le ancor più recenti elezioni statunitensi hanno invece dimostrato come pasolinianamente, una parte considerevole dell’accezione del termine greco sia legata all’arbitrarietà assoluta di un potere che ormai non si fa più scrupoli nel negare in modo esplicito i meccanismi delle sue stesse fondamenta.
L’agile guida di Andrea Salvatore, che si propone un po’ come campionario delle suggestioni e delle suggestions anarchiche, giunge in libreria forse nel momento peggiore – ma questo scherzosamente potrebbe non essere un limite per un lavoro di questo genere, se ricordiamo che la massima principale del fumetto di Anarchik era “farò del mio peggio”.
Pesa, sulla pubblicazione di questo compendio, l’assenza di un movimento politico vasto e visibile (come fu Occupy per Graeber, ad esempio): una realtà viva che accompagni e consolidi l’analisi per macrotematiche proposta dall’autore, impedendo che essa diventi puro materiale da dottorato, esercizio mnemonico o retrospettivo.
A essere sinceri, il forte dibattito accesosi sulla cancel culture a seguito della (ri)nascita del movimento Black Lives Matter, avrebbe probabilmente richiesto un approccio più approfondito del costante legame tra l’aspetto critico e l’azione diretta in ogni anarchismo che si rispetti. O alla stregua, un timido excursus sulle numerose modalità di demitizzazione dei valori fondativi dello Stato e della nazione, di cui gli anarchici sono da sempre autori prolifici – ben oltre i regicidi e gli attentati.
L’autore, da ottimo accademico qual è, compila invece una breve summa dell’apparato teorico del pensiero con la A cerchiata, sviscerandone gli ambiti prediletti di competenza, i concetti cardine, così come i mantra.
Questo lo costringe però a eccedere nell’esposizione astratta, quanto nello stile didascalico, col risultato di veder confinati solo nelle ultimissime pagine alcuni (brevi) momenti salienti degli effettivi contributi anarchici ai grandi cambiamenti storici.
Tra questi, il professor Salvatore sceglie curiosamente di annoverare anche i soviet russi, il cui esame finisce però per ridurre ai termini irrisori di una mera citazione le ben più importanti – in chiave libertaria – insurrezioni contemporanee di Kronštadt e di Nestor Machno.
Una scelta particolare, questa, anche perché sembra riproporre involontariamente la visione stereotipata e un po’ edipica dell’anarchismo come figlio eretico, reietto e spontaneista del pensiero-padre comunista. Quindi a esso legato, in forma di deviazionismo, lungo ogni passaggio storico.
Forzoso pare altresì l’inserimento sporadico di figure come Giovanni XXIII[1] e Gandhi nel novero delle personalità considerate come genericamente anarchiche.
Non tanto e non solo per la loro dimensione oggettivamente religiosa[2], quanto per il rischio concreto di snaturare una filosofia incentrata sulla libertà per saggiarne l’apertura opportunistica verso i settori più svariati della società moderna.
Quasi che quella “a-“ negativa iniziale possa fungere da comodo passe-partout per nobilitare ogni velleità anticonformista oppure ogni buona intenzione riformatrice.
A confermare questa ipotesi vi è poi il piano stesso dell’opera, che nel privilegiare come detto l’analisi tematico-argomentativa, tende a mostrare le principali proposte sociali e politiche dell’anarchismo come fossero frutto di mere riflessioni statiche, conseguenza di un impegno intellettuale che poco avrebbe a che fare con i numerosi e plurisecolari conflitti che ne hanno accompagnato la gestazione.
Era per questa ragione che un grande e poco conosciuto pensatore anarchico come Camillo Berneri soleva dire che l’utopista non potrà mai essere un uomo politico: perché l’utopista può approdare alla città storica, ma non può conquistarla. In ogni tempo, Firenze uccide Savonarola.
E gli anarchici – che nella vulgata hanno fama di utopisti massimi – in realtà somigliano ben poco al Beato Ieronimo.
È palese che la lettura sequenziale e manualistica di tutte le varianti dell’anarchismo proposta dal professor Salvatore rischia di farci perdere la necessaria, essenziale componente diacronica e dinamica dell’anarchismo stesso.
A differenza di altri movimenti, infatti, per gli anarchici il lavoro speculativo non ha a priori una supremazia concettuale rispetto al lavoro materiale e alla prassi.
Anzi, è stata spesso l’esplosione autonoma e imprevedibile di lotte le più eterogenee a fornire agli studiosi libertari il materiale per la loro comprensione in itinere, senza che emergesse il dovere costante di ri(con)durre tali lotte entro i termini di una dialettica precostituita, come invece avviene d’abitudine nelle ideologie canoniche.
Potremmo affermare per paradosso che il puntuale studio di Andrea Salvatore sia quindi utilissimo a suggerirci la palese impossibilità di parlare del pensiero che se stesso consuma – come affermava Max Stirner – guardandolo esclusivamente nello specchio del suo passato e da una prospettiva museale.
Una impossibilità, questa, che in tempi come i nostri dovrebbe poi essere estesa a ogni altra forma di “radicalità” politica o culturale: almeno per impedire che il legittimo tentativo di catalogazione di quei saperi che producono coscienze si arresti sul tavolo autoptico dello studioso o all’altezza della sua lente.
[1] “A ben vedere dolce profeta di un anarchismo che antepone a un’inscalfibile ortodossia una meno regolabile e ben più umana prassi pastorale” (pag. 99). Davvero ardito accostare la “prassi pastorale” alle forme dell’anarchismo… Ciò pur nel riconoscimento di un’interpretazione cristiano-evangelica del pensiero libertario che storicamente vide in Lev Tolstoj il suo massimo esponente.
[2] Di Gandhi sono altresì note le posizioni razziste nei confronti degli africani: posizioni che di recente hanno portato all’imbrattamento di diverse statue a lui dedicate.