Partiamo dalla fine: il Peisithanatos non è verbo per tutti, uno di quei confortanti libricini con cui ci si trastulla a fine giornata, suggendone alle mammelle sollievo da ubbie o tamponanti garanzie di riscatto, come si fa con certi veloci antireumatici da banco, con qualche assuefacente ansiolitico barattato coi rimasugli dello spirito o con qualche comoda (fin troppo) Bibbia tascabile e sue gemelle. Qui non ci troverete alcun remedium o dozzinale pozione che possa farvi dimenticare della vostra miseria radicale, del vostro trascinarvi epilettici nella trama demoniaca dei sempiterni amari tempi, dell’immarcescibile e pur marcescente «iattura del βίος»; vi tocca patirli senza troppi immaturi piagnistei e con l’impassibile vigore del marmo del Laocoonte: con nobiltà, attributi e intenzione stoica. Il Peisithanatos è dunque per chi non teme l’implacabilità dello specchio e preferisce ai piumacci, imbottiti fino a scoppiare di favoleggiamenti e altre amenità, il funereo punzecchiare del becco del corvo alle carni, memento del loffio casuale recinto in cui vi capitò d’esser gettati (l’eccezionalmente biotico del “si vivacchia”) e della pasta che vi modellò, tra tutte la più indesiderabile, quella guasta e grassa e grave del male.
La vita, per cui Lanterna impugna la più ficcante delle tavolozze lessicali, non sarebbe la vermiglia e laccata ciliegina sulla torta di un gassoso, petroso e desolato universo, da benedirsi e per cui scomodare miracolosi interventi di generose mani ultramondane, bensì la sua tanfosa “muffa”, il plurimetastatico “carcinoma”, le sue accidentali concrezioni di “ruggine” e di “carie”, la necronarrazione dell’infausto orrore dell’ossidazione nelle cui sacche l’uomo, “l’accidente di un accidente, […] un orpello, una schiuma, dell’inutile cascame, il violaceo barbiglio d’una gallina”, nicchia come nicchia “l’acaro, il pidocchio, il sozzo microbo”: da parassita alla potenza. Questo “fesso di tre cotte”, questa “nientità” scriteriata, non solo non avrebbe ragioni per pretendere per sé, su questa Terra, un paletto di terapeutica giustizia (non è malato, è egli stesso il morbo o, nel dettaglio, la sua infiorescenza: la pustola), ma anche di pretenderlo in un dopo azzardando sensate architetture e maldestre metafisiche d’occasione: “fantasticherie”, “ghiribizzi”, “farneticazioni”. Nessun sistema coerente, denuncia l’autore, avrebbe le carte per sciogliere in qualche pia intenzione i guasti di tale condizione: il no lapidario è per ogni ordinata ontologia, ogni abusato determinismo, ogni disegno escatologico, mandando a farsi benedire i tre quarti della storia del pensiero. Le suona anche ai più audaci e pessimisti scolaretti di Schopenhauer che, a forza di reggere la prova con il Tutto, commisero l’errore capitale del depistaggio, del raggiro, del delirium oltre l’effettivamente esperibile, ovvero il disgraziato pasticcio dell’organico: dell’uomo e per l’uomo solo lo spazio ristretto del suo letamaio esclusivamente biotico, sorta di bolo rimasticato nel continuo rimpastarsi della vita e che, lungi dall’essere faccenda del Cosmo (semmai ne è la mosca molesta), da questo è rigettato come si rigetta una “facies pestica” o un’aberrante stortura.
L’uomo di Lanterna in breve è il miserabile e malvagio scempio universale, l’irrecuperabile per sostanza, uno scherzetto che simula belletti dissimulando l’impotenza che incarna e che, se non si crucciasse di “darsi un tono” con inoperabili logomachie da mercato, trionferebbe nell’ars macellaia al pari di certe fiere fameliche o di certe piante carnivore e infestanti, poiché il βίος, questo “supremo tossico”, voltola secondo l’unica folle legge del mors tua vita mea, dell’organico che resiste a sé stesso rimaneggiandosi gli scarti. Ebbene, di questa vita “fachiro, cortigiana e misirizzi”, di questa effervescenza caustica irreparabile, Lanterna esige la fine, l’estinzione, “il morire tutti insieme in un fiat”, perché se “è così e non può essere altrimenti, allora che la vita non sia! Ecco la soluzione! Occorre cioè fracassarla come Alessandro fece col nodo di Gordio, con la stessa mania geniale”, “mutare la Terra in un’altra Luna, gassarla, azotarla, scolorirne per sempre con degli acidi tecno-alchemici quel blu incantatore e malefico, l’ingannevole variopinto velame ai suoi laboriosi orrori”.
Questo manifesto dell’antibiosi totale cui immolarsi con eroico atto etico ed estetico, questo invito alla contraccettiva filosofia del non-nascere da preferirsi all’abortiva, si stende tra le carte dell’autore con la disarmante e dotta scrittura dei migliori inattuali, di quei tacitatori di altre voci che l’ottimo Franco Volpi chiamava “i rapaci”: Nicolás Gómez Dávila, Albert Caraco, Emil Cioran, di cui Lanterna conserva la volontà corrosiva, i feroci frizzi, le asperità delle immagini da digerirsi a suon di potenti gastroprotettori. Ma il Peisithanatos è anche un grande omaggio ai moralisti (come lo stesso autore dichiara), all’incisiva sprezzatura simil-rinascimentale di un Jean de La Bruyère, al loro procedere per frammenti, glosse e postille e intercalari rapsodici, come per negarsi il filo, la trama, il difetto del contabile, il rischio del “pompierismo filosofico” e delle ordinate tronfie analisi: “coerenza e non-contraddizione non c’appartengono; digressione, capriccio, eclettismo e zigzagamento sì”. Questo libro è tutto questo e molto di più, poiché non solo di quelli rifiuta ogni bizza d’indulgenza e arraffate pezzuole di Linus con la glaciale impassibilità del più indisposto dei contrattatori, ma li supera in bellezza col talento dei veri artigiani delle parole, dei poeti che rincorrono i segni come si rincorre un’intuizione, un’alveolare sonora, un diesis perfetto: al granito delle sue noterelle contrappone generoso la musicalità e pregnanza di un dizionario mai banale, del suo irriducibile scalpello che lavora rifuggendo ogni iato, elidendo l’elidibile, liquefacendo tra gli apostrofi forse anche la sua stessa possibilità di farsi finalmente discorso.
Se non vi riuscirà d’assorbire la ‘nietzscheana’ tracotanza di chi rigetta ogni idea grossolana col piglio dei dinamitardi, o ancora la quasi beckettiana sceneggiatura del Persuadimorte in cui l’unico imperativo vigente è l’adamantino essere ottimisti è da criminali, una cosa è certa: vi sarà impossibile non godere di una colta ars scribendi che lascia sgomenti come possono la rarità e l’eccezione e non riconoscere, nella lirica sonata a morto di Lanterna, la sbalorditiva efficacia di chi sceglie di anteporre al voluminoso il monumentale.