A essere fantascientisti, certe volte capita di commuoversi. Questa è una di quelle volte. Già il fatto che spunti qualche nome nuovo, come quello di Jeff Vandermeer, in un genere che dal 1980 in poi è stato dato per morto anche troppo spesso, una certa emozione ce la fa provare. Che poi Vandermeer lo pubblichi Einaudi, e non Urania, anche questo non manca di colpire (al cuore).
Ma che nel 2015 Vandermeer, con umiltà e competenza, s’imbarchi con la sua compagna a compilare una bella antologia di racconti di fantascienza (e non solo) scritti da donne, e incentrati sulla questione del genere (sessuale), è cosa che la lacrimuccia ce la fa versare. Pare d’essere tornati agli anni d’oro, quando diversi scrittori di fantascienza (penso ad Asimov, a Pohl, a Harlan Ellison, ma ce ne sono tanti altri) si sentivano in dovere di alternare la loro scrittura all’umile ma prezioso lavoro di antologista, proponendo di tanto in tanto il meglio, a loro avviso, che si proponeva nel genere. E il duo Vandermeer ha svolto il lavoro in modo encomiabile: i racconti vanno dall’interessante al sublime, con tutte le gradazioni intermedie.
Un lavoro notevole anche perché ripercorre un arco piuttosto ampio di scritture femminili, dai primi anni settanta (quando il filone della fantascienza femminista emerge inequivocabilmente) a oggi. E non si limita al mondo dei paesi di lingua inglese, andando a includere anche autrici ucraine e argentine, nonché caraibiche (neanche un’italiana, ma si sa che noi siamo caduti dalla mappa parecchio tempo fa…). E dentro ci sono tutti i nomi che ci devono essere, più alcune interessantissime sorprese.
E sia chiaro: qui non ci sono comizi e manifesti. C’è una scrittura sempre di buon livello con punte (non poche) di livello eccezionale se non sbalorditivo; ci sono racconti che sfruttano le potenzialità che solo la fantascienza può offrire per presentarci un mondo diverso dal nostro che però ci spinge, talvolta ci strattona, talvolta ci schiaffeggia, fino a obbligarci a rivedere questo mondo in cui viviamo con occhi del tutto diversi. Ma senza bisogno di proclami. Queste scrittrici sanno benissimo come metterci di fronte alle nostre responsabilità di uomini semplicemente raccontando – e così facendo hanno un effetto assai più devastante di tanti sermoni. Inoltre, la differenza di prospettiva che caratterizza ciascun racconto insegna che generalizzare su ciò che possa essere un’ipotetica “identità femminile” o come vada intesa una qualche “scrittura al femminile”, lascia il tempo che trova. Come tutte le altre donne, queste scrittrici sono fatte ognuna a modo suo, e hanno voci assai diverse; le formulette semplificatorie lasciatele al Bar dello Sport.
Ora, il motivo per cui questa raccolta di racconti mi sembra meritevole di particolare attenzione è anche un altro, e cioè che la piccola casa editrice Nero, che s’è coraggiosamente lanciata in questa iniziativa, non ha fatto mettere in italiano tutto il testo a un solo traduttore; ha invece dato a ogni scrittrice la sua traduttrice, salvaguardando in questo modo fin dove possibile la pluralità e la diversità delle voci. In qualche caso, riutilizzando traduzioni storiche; in altri coinvolgendo un piccolo plotone di volenterose, che (cosa meritoria) vengono presentate in appendice, facendoci conoscere cosa fanno di solito e da quale retroterra provengano. Se non è dare visibilità al traduttore questa, non so cosa si possa fare di più (magari la prossima volta le foto…?).
Trattandosi di una pluralità di voci appartenenti oltre tutto a diversi periodi, dare un’idea complessiva dei contenuti dei vari racconti sarebbe un’impresa disperata e tutto sommato futile. Però il critico non può esimersi dal mettere mano all’evidenziatore, e segnalare quali racconti spiccano in questa raccolta, quale sia il meglio del meglio. Vado assai soggettivamente, com’è inevitabile che sia, e tanto per cominciare raccomando “La bandita delle palme”, di Nnedi Okorafor, una favola africana che colpisce; “La sposa perfetta” della simpatica Nalo Hopkinson, anche questa in chiave favolistica ma di ambientazione caraibica (e colgo l’occasione per deprecare il fatto che della Hopkinson si sia tradotto troppo troppo troppo poco); agghiacciante con noncuranza “La sposa perfetta”, di Angélica Gorodischer, perfidamente argentina; “Sur”, un racconto atipico della grande Ursula K. Le Guin, cronaca ucronica della segreta conquista del Polo Sud; “Casa sul mare” di Elizabeth Vonarburg, che riscrive al femminile Blade Runner senza darlo a vedere; “Paure” di Pamela Sargent, scorcio di distopia alquanto impressionante, che potrebbe sembrare imitazione del Racconto dell’ancella della Atwood, non fosse che uscì un anno prima.
E poi ecco a voi i pesi massimi. “Quando cambiò” di Joanna Russ: quarantasei anni dopo la sua prima pubblicazione, resta una pietra miliare non solo della fantascienza femminista, ma della fantascienza in generale e della letteratura punto e basta, con la sua proiezione di un mondo senza uomini che ancora mantiene intatta la sua capacità di spiazzarci. Cosa dire poi di Angela Carter, col suo inquietante “L’ascia omicida di Fall River”, capace di raccontare un atroce delitto del 1892 girandoci attorno, in un crescendo di allusioni e accenni che rende l’atmosfera di vero gotico americano sempre più soffocante e malsana. Infine, ultima non certo in ordine d’importanza, Alice Sheldon, in arte James Tiptree Jr., presente ne Le visionarie col suo formidabile racconto “La soluzione della mosca”, dove dà il meglio di sé nella misura che le era più congeniale, quella del racconto lungo. È come al solito un concentrato di potenza immaginativa, spietatezza, compassione, amara saggezza che ritrovi in non moltissimi autori del secolo ventesimo. Dispero di essere all’altezza della sua prosa con la mia, per cui vi dico solo: leggetevelo.
Ecco, ora capirete, dato tutto quel che precede, perché mai un fantascientista qual io sono mette mano al fazzoletto quando esce un’antologia come Le visionarie. Poi verranno i soliti cavillosi a dire che solo una parte dei racconti sono fantascientifici, che alcuni rientrano nel fantasy, altri sono decisamente indefinibili in termini di genere, ecc. ecc. ecc. Per pararsi le spalle le curatrici dell’edizione italiana nella postfazione si trincerano dietro il termine di speculative fiction, uno di quei termini abbastanza ampi da accontentare tutti. Va bene, non contesto. Speculative fiction è pur sempre SF. E noi fantascientisti sappiamo bene che vuol dire science-fiction.
(Infine dedico questa recensione a un confratello fantascientista che non c’è più, Massimo Mongai, ovunque egli sia; io so perché, e lo sa anche lui.)