La voce delle Muse, l’incanto della parola

Davide Susanetti, Luce delle Muse. La sapienza greca e la magia della parola, Bompiani, pp.336, euro 19,00 stampa

Affilate come lame, suadenti o vigorose, le parole sono espressione del nostro sentire: ce ne serviamo talvolta con profonda consapevolezza per convincere l’interlocutore, per sedurlo, per infondergli coraggio; in altre occasioni ci addentriamo maldestramente in discorsi dei quali a stento teniamo le redini, con risultati desolanti. Nell’epoca dello storytelling e dell’enfasi sulla narrazione – cui troppo spesso fa da controcanto invero una avvilente e diffusa sciatteria nell’uso del linguaggio –, Davide Susanetti intraprende un viaggio tutt’altro che anacronistico, perché risale fino alla sorgente del mito, che si prende gioco del tempo e rifulge nella sua incorruttibile eternità: Luce delle Muse, recentemente pubblicato da Bompiani, è il saggio con il quale lo studioso, mediante la consueta grazia che contraddistingue la sua scrittura, si propone di indagare il legame tra parola e conoscenza.

Lo splendore che sin dal titolo promana è l’incanto dell’ispirazione, quel fiducioso e folgorante cammino che conduce i poeti sul Monte Elicona a invocare la protezione delle figlie di Zeus, le nove fanciulle che sovrintendono alle arti e ai saperi. Al suono della lira di Apollo, esse intrecciano danze e intonano melodie capaci di evocare ed eternare il ricordo di ciò che è stato. Altrettanto divino appare il silenzio dal grembo del quale nascono le suggestioni poetiche, l’istante epifanico in cui l’invisibile si rivela. Il verso risulta dunque un dono che le Muse elargiscono agli aedi, i quali accolgono l’illuminazione e si fanno tramite di un messaggio che giunge da una dimensione altra.

Erede della magia della parola e a sua volta artefice di essa, Orfeo, figlio della Musa Calliope, compone una musica apollinea in grado di ammansire le belve feroci, di infondere vita ai sassi e di placare l’animo irruento degli uomini. La dote di cui è depositario gli sarà particolarmente utile nel momento in cui, per restituire al mondo dei vivi la sua sposa Euridice, oserà sfidare la Morte stessa, varcando la soglia degli Inferi, sovvertendo cioè l’ordine dell’universo, e suscitando con il potere della sua arte la commozione degli dèi dell’oltretomba. Dopo la perdita definitiva della moglie, il suo canto diverrà celebrazione dell’amore e scatenerà l’irritazione incontenibile delle Baccanti, le quali, inviperite per il rifiuto di Orfeo nei confronti delle leggi dell’esistenza, nel rito di una danza sfrenata faranno a brani il suo corpo. La sua testa, tuttavia, salvata dalle onde, continuerà a cantare, simbolo supremo della funzione eternatrice della poesia.

Nell’orizzonte dei poemi omerici, è Odisseo a farsi interprete del mistero della parola, nella sua duplice – e talvolta ambigua – veste di fruitore e oratore. Non è raro che, al fine di fronteggiare le impreviste difficoltà, l’eroe dal multiforme ingegno faccia ricorso alla sua proverbiale astuzia, ponendola al servizio dell’eloquenza. La sua irriducibile umanità emerge tuttavia nel momento in cui, in silenzio, ascolta il canto delle sue gesta. Naufrago e supplice alla corte di Alcinoo, fisicamente e moralmente provato dalle numerose traversie, il re di Itaca ode Demodoco declamare le vicende legate alla guerra di Troia e sotto il mantello nasconde lacrime di sincera commozione. “Il vincitore piange come chi è stato vinto”, spiega Susanetti, e poi acutamente aggiunge che Odisseo “e il canto sono la medesima cosa e la realtà del passato, la realtà della guerra e della violenza lo travolgono al di là del premio e del prestigio della gloria. Non vi è dolcezza quando la parola fa rivivere, senza filtro, la propria stessa pena”. Al contrario, quando noi ci mettiamo in ascolto di quei racconti, il nostro turbamento, per quanto intenso, non è disperato, poiché esiste “una distanza, protettiva e salvifica, che separa la storia dalla realtà”.

Allo spessore della ricerca di Davide Susanetti si accompagna la raffinata eleganza del dettato: la sua capacità affabulatoria trasforma la poderosa indagine in un ammaliante racconto, che “fluisce” come l’esiodea voce delle Muse. Così il suo lavoro risulta, da un lato, un valido supporto didattico (merita una menzione particolare, a tal proposito, il capitolo in cui vengono messe a fuoco le occasioni della poesia, il rito e la festa), dall’altro un godibilissimo percorso nelle terre del mito.

La luce delle Muse ha la sua dimora “in ciò che è sempre”; a noi mortali il compito di cogliere quella scheggia di eterno e tendere, attraverso lo slancio che deriva dalla tradizione, verso una altrettanto luminosa verità.