Figlia di una vestaglia blu di Simona Baldanzi può essere considerato un classico della letteratura del lavoro contemporanea. L’affermazione, che può apparire esagerata, trova invece conferma nella recente riedizione a cura della casa editrice Alegre, nella collana – nata da poco – dedicata alle scritture della working class e diretta da Alberto Prunetti (per il momento, ci solo tre romanzi compongono la collana: oltre il libro di Baldanzi, c’è Ruggine, meccanica e libertà di Valerio Monteventi e, da pochissimo pubblicato, Chav di D. Hunter).
L’affermazione appare meno azzardata se si specifica che la letteratura del lavoro è un universo in continua espansione da circa un trentennio (riferendosi solamente alla nouvelle vague) e che il romanzo di Simona Baldanzi rappresenta il modello di una specifica tipologia di romanzo che trova posto in questa nebulosa letteraria: il récit de filiation, dove una figlia (o un figlio, come vedremo più avanti) cerca di rinsaldare il vincolo generazione e di porsi di fronte alla società in maniera antagonistica, non dimenticando che la società – seppur liquida – è ancora suddivisa in classi sociali ben distinguibili. La materia narrativa intreccia tre storie: quella della narratrice, ampiamente autobiografica (come conferma a più riprese il paratesto), in cerca del proprio posto in una società lavorativamente sempre più claustrofobica; quella della madre, operaia della Rifle in cassa integrazione; e la storia dei gilets arancioni della Cavet (Consorzio Alta Velocità Emilia e Toscana), minatori che scavano le gallerie dove passerà la TAV nei pressi del Mugello.
La narratrice sta scrivendo la propria tesi di laurea in sociologia sui minatori e per questo motivo inizia a frequentare il cantiere toscano. Da un’iniziale diffidenza nei confronti della ragazza, mai veramente sopita anche a causa delle paradossali accuse del sindacato che denunciano un’attività politica celata dalla ricerca universitaria, la protagonista riesce pian piano a costruire alcuni rapporti personali forti e sinceri all’interno del campo di lavoro, basati sull’affetto ma soprattutto sull’affinità politica e la voglia di giustizia sociale.
Questo piano della narrazione è continuamente sovrapposto al vissuto della narratrice: al bianco accecante dei cantieri TAV, che “non […] sa di candore e di pulito” (p. 25), si oppone il blu della tuta da lavoro della madre che giace incellofanata in fondo a un armadio in attesa di un’improbabile chiamata dell’azienda; un romanzo cromatico che sfocia nel rosso dell’identità politica della narratrice (da notare la bellissima copertina disegnata da Antonio Pronostico). Esattamente come la madre che cuciva i passanti dei jeans Rifle, anche la figlia cerca di ricucire lembi strappati, ma quelli della classe operaia: un lavoro certosino, tutt’altro che meccanico e alienato, che connette soprusi, ingiustizie, morti “bianche”, critiche alla gestione del personale Rifle e Cavet e lucide meditazioni sulla realtà politica toscana e italiana.
Si diceva però che Figlia di una vestaglia blu rappresenta un piccolo classico della letteratura del lavoro, nella fattispecie particolare del récit de filiation; infatti dal 2006, anno in cui il romanzo uscì per i tipi della Fazi, almeno altri due romanzi sono stati costruiti seguendo la traccia aperta da Baldanzi: Amianto di Alberto Prunetti (Alegre, 2014), “che ha voluto fortemente questo ritorno di Figlia di una vestaglia blu nella sua collana” (p. 212), ma anche La fabbrica del panico di Stefano Valenti (Feltrinelli, 2016). I due romanzi presentano una struttura assai simile, ma sono declinati al maschile: la storia di un figlio non più giovanissimo che tenta di arrivare alla fine del mese con i magri guadagni del lavoro intellettuale (in entrambi i casi si trattava di traduttori freelance), che s’intreccia a quella di padri operai, sconfitti socialmente e per giunta malati, avvelenati dalle polveri di amianto respirate nelle fabbriche e nei cantieri. Nonostante la malattia non sia presente nelle pagine di Baldanzi, i punti di contatto restano numerosi e servono a mostrare la centralità, nel micro-canone della letteratura del lavoro, di Figlia di una vestaglia blu.
Esauritasi la forza propulsiva dell’autunno caldo, ridimensionate le pretese operaie al confronto con le strettoie economiche del paese, dopo il 1980 e la Marcia dei Quarantamila, la classe operaia esce frammentata e screditata: i genitori presenti nei romanzi citati fanno parte di questa generazione di operai, che pur tentando una lotta si scontrano con l’inerzia del periodo storico. È dunque la generazione dei figli a (ri-)prendere la parola, declinando la storia della classe operaia dal proprio (interno) punto di vista, raccontando per non essere raccontati, prendendo la parola direttamente per non essere considerati una “razza in estinzione, da proteggere” (p. 62); e qui il pensiero va a un altro “classico” come Mammut di Antonio Pennacchi (Donzelli, 1994; Mondadori, 2011). Il ritorno in libreria di Figlia di una vestaglia blu aggiunge un tassello importante nella mappatura delle narrazioni del lavoro, ma mostra al contempo l’immobilità di un Paese in cui ripubblicando un romanzo sulle urgenze civili a distanza di tredici anni esso ritrova tutta la sua attualità. Come dire, un classico non smette mai (suo malgrado) d’essere attuale.