Per quei pochi che ancora non lo conoscono, Chris Ware è il protagonista assoluto del fumetto americano del nuovo millennio: l’artista (lui preferisce definirsi “cartoonist”) che ha saputo reinventare la letteratura grafica elevando il fumetto a opera d’arte. Grazie a lui un medium che sin dalle origini era relegato alla sfera della comicità o peggio, della trivialità – basta pensare ai termini inglesi che lo definiscono: “funnies” e “comics” – entra definitivamente nelle gallerie d’arte e nelle aule universitarie. Oggi le opere di Ware sono oggetto di convegni interdisciplinari e le sue tavole vengono periodicamente esposte in prestigiosi musei, dal Whitney Museum of American Art di New York al Museum of Contemporary Art di Chicago.
Da qualche settimana negli Stati Uniti è uscita la sua nuova opera, Monograph, una imponente autobiografia (pesa esattamente 3.9 kg e misura 33,5 x 3,3 x 46,7 cm.) corredata da un tripudio di immagini che raffigurano tavole preparatorie dei suoi fumetti, foto che lo ritraggono al lavoro o che documentano la sua frequentazione di artisti di caratura internazionale, cataloghi di mostre, locandine e illustrazioni, oggetti meccanici da lui realizzati, appunti e disegni presi dai suoi taccuini, bozzetti, fanzine autoprodotte, installazioni in legno e in plastica, giocattoli e giochi da tavolo di sua invenzione, action figures da lui progettate e costruite – e quant’altro la mente labirintica ed eclettica di Ware è riuscita a produrre nel corso della sua lunga e ambiziosa carriera. L’autoritratto che introduce il volume costituisce già una dichiarazione di poetica, una riflessione sull’artista in quanto amalgama, ibrido, insieme di elementi eterogenei. Chris Ware dipinge se stesso come la testa di una action figure da assemblare, un insieme meccanico formato da una serie di influenze artistiche e suggestioni culturali. Tra gli artisti che lo hanno maggiormente ispirato, infatti, ritroviamo giganti del fumetto come Art Spiegelman, Robert Crumb, Charles Burns, Richard McGuire, Adrian Tomine e, prima ancora, il George Herriman di Krazy Kat e il Charles Schulz dei Peanuts. Ma anche scrittori, architetti, musicisti, pittori.
Nato nel 1967 a Omaha, in Nebraska, durante l’adolescenza Ware era solito trascorrere i freddi pomeriggi invernali del Midwest a leggere fumetti di supereroi; alla fine degli anni Ottanta si trasferì nel torrido Sud per studiare alla University of Texas di Austin, mentre continuava a disegnare fumetti che pubblicava regolarmente sul Daily Texan (qui ha origine uno dei suoi personaggi più riusciti, Quimby the Mouse). Un giorno i suoi lavori capitarono per caso nelle mani di Spiegelman, che lo invitò a pubblicare sulla rivista RAW, caposaldo del fumetto underground. Da lì la svolta che lo ha portato, dopo il trasferimento a Chicago nel 1992, ad aggiudicarsi con Jimmy Corrigan, il ragazzo più in gamba sulla terra (Coconino Press, 384 pp., 27 euro) l’American Book Award nel 2000, e l’anno successivo il prestigioso Guardian Book Award, per la prima volta assegnato a un’opera di letteratura grafica. Oggi Chris Ware vive in Illinois, nell’hemingwayana Oak Park, con la moglie Marnie e la figlia Clara, e sta lavorando al graphic novel che i suoi fan attendono ormai da sette anni: Rusty Brown, di cui ha pubblicato finora una lunga introduzione e poche altre tavole sulle pagine della sua rivista a fumetti, The Acme Novelty Library.
Ogni volume della Acme Novelty Library (uscita a partire dal 1993 e bloccata per ora al numero venti, con la storia autoconclusiva di Lint, personaggio secondario del graphic novel Rusty Brown) contiene un misto di storie a fumetti, finte pubblicità per corrispondenza sullo stile dei vecchi cataloghi di Sears, Roebuck & Co., riflessioni sull’arte del fumetto, inserti da ritagliare e incollare con le istruzioni per costruire edifici, proiettori, action figures, ecc. Se ciò non bastasse, ogni volume è stampato in un formato differente: Ware sembra infatti intenzionato a frustrare i collezionisti, abituati a vedere tutti i numeri dei loro fumetti preferiti ordinati uno accanto all’altro sullo scaffale della libreria. Spesso le istruzioni per il montaggio delle figurine suggeriscono ironicamente al lettore di acquistare due copie del volume, una da cui ritagliare le pagine e una da collezionare. Tuttavia, quando durante una conferenza gli ho provocatoriamente chiesto: “Perché odia così tanto i collezionisti?”, Ware è rimasto stupito e si è affrettato a rispondere che non odia proprio nessuno. In effetti è lui il primo a collezionare ogni tipo di ephemera, e anzi ha personalmente ideato e disegnato un gigantesco espositore dotato di tasche di formato variabile per accomodare i suoi vari volumi. Peccato che, da collezionista incallito, ciò mi abbia frustrato ancora di più, perché il bellissimo espositore è ormai fuori produzione e praticamente impossibile da reperire (l’anno scorso ero quasi riuscito a corrompere un libraio di Athens, in Georgia, a vendermi il suo, ma non avrei saputo come imbarcarlo in aereo!).
A tutt’oggi il graphic novel Jimmy Corrigan resta il suo capolavoro. Merito di Ware è aver sovvertito l’interazione tra parole e immagini che è alla base del fumetto, spingendone le potenzialità ai limiti estremi. Nelle opere di Ware, infatti, i disegni non si limitano a illustrare la storia, né la vignetta è considerata alla stregua di un’inquadratura, un punto di vista “filmico” attraverso cui i lettori (o meglio, gli spettatori) “assistono” alle vicende narrate. Come ha sottolineato lui stesso in un’intervista, il suo scopo è ricreare nelle tavole “il ritmo della combinazione di parole e immagini e simboli” che costituiscono la nostra esperienza quotidiana della realtà, attraverso una tecnica che gli permette di “suddividere il tempo” sulla pagina come avviene nelle battute di una partitura musicale. Un’altra importante influenza delle opere di Ware gli viene infatti dal ragtime (Scott Joplin è una delle sue figure di riferimento). Fervente amatore e collezionista di musica e feticci del ragtime, Ware ha addirittura creato una rivista aperiodica dedicata al tema e corredata di suoi disegni, The Ragtime Ephemeralist (interrottasi dopo soli tre numeri, ma che forse avrà una ristampa e una continuazione nel prossimo futuro).
Uscito in America nel 2012 (in Italia è in pubblicazione presso BAO Publishing), il suo Building Stories è composto da 14 “pezzi” riuniti in una scatola – una raccolta di lavori grafici in stili, formati e dimensioni differenti (fumetti rilegati, strisce, pagine di quotidiano, cartonati, libretti da sfogliare stile flip books) che raccontano la vita degli inquilini di un caseggiato da diversi punti di vista spazio-temporali senza un ordine o una cronologia precisa. Uno dei protagonisti è proprio l’edificio, dotato di pensieri e ricordi al pari dei personaggi (tra cui compare anche l’ape Branford e la sua famiglia). Qui la sinergia tra il fumetto e le altre arti è essenziale alla fruizione dell’opera: il realismo che Ware propone nelle sue opere è infatti ottenuto con un tratto iconico e “architettonico” che spesso può apparire freddo, ma che grazie a una particolare alternanza di colori e forme ricorrenti, a una simmetria ibrida di tavole, schemi e diagrammi che danno vita a un’originale fusione di stile e contenuto, si rivela al contrario un eccezionale mezzo di trasmissione emotiva. Building Stories mette in crisi la famosa definizione proposta da Scott McCloud del fumetto come “arte sequenziale”, presentando una serie di oggetti senza un ordine indicato e aprendo la fruizione a una serie di percorsi casuali e soggettivi. Non è facile determinare quale sia l’ordine cronologico di lettura delle parti – forse non esiste un vero e proprio “ordine” e ogni sequenza scelta (più o meno inconsapevolmente) dal lettore rappresenta un percorso ugualmente valido. Nelle tavole di Ware c’è un’attenzione maniacale al dettaglio: i suoi fumetti obbligano il lettore a riconsiderare più e più volte le tavole, a completarle per cercare di intuirne la sequenza, per escogitare una continuità tra le varie parti; molte tavole sono silenziose, altre sono impossibili da leggere e analizzare senza una lente d’ingrandimento. Questo ritmo, questa musicalità e minuziosità del disegno, funziona come equivalente grafico di tecniche letterarie che rimandano alle sperimentazioni moderniste e postmoderniste: non è un caso se per parlare di Ware molti critici abbiano spesso scomodato James Joyce.
Costante nella sua poetica è la figura del supereroe, alla base del fumetto americano sin dagli anni Trenta; in Ware, però, Superman è una figura ambigua, spesso ripugnante, un personaggio obeso che assume di volta in volta il ruolo di un dio indifferente e bizzoso, un truffatore cosmico, un padre assente, scostante e violento, un cinico sfruttatore. Attraverso questa figura sono veicolate riflessioni su influenza, ricezione e plagio, che scavano nelle profondità dell’inconscio americano e che gettano le basi per la retorica del fallimento padroneggiata da Ware, sia nella costruzione della figura autoriale (nelle interviste e nelle prefazioni la parola che usa più spesso è apologies, come a scusarsi per l’inadeguatezza della sua arte e della sua persona), sia nelle sue opere, che costruiscono una vera e propria estetica del fallimento. Quella di Ware è un’arte dell’understatement che vanta antenati illustri nella letteratura americana e che situa l’artista in una tradizione letteraria in grado di ribaltare i valori del “Sogno Americano”, esaltando il fallimento come caratteristica dell’artista. Ware gioca di continuo col rapporto tra cultura elevata e cultura popolare, tra l’afflato dell’ispirazione e le esigenze di mercato che immancabilmente governano lo sviluppo del prodotto letterario. La storia della letteratura diventa così nelle tavole di Ware un catalogo di frustrazioni, un confronto forzato dell’artista con la propria inadeguatezza. Secondo Ware, infatti, la felicità è sopravvalutata, è una trovata pubblicitaria, un prodotto pubblicizzato dagli spot televisivi.
E il più infelice di tutti è proprio il fumettista! Ware riflette sul ruolo del “cartoonist” in diverse tavole che ne descrivono la carriera come una serie di fallimenti, rinunce, sacrifici e sopportazioni. Una di esse è intitolata: “Rovinatevi la vita: disegnate fumetti! E condannatevi a decadi di insopportabile isolamento e al completo disprezzo sociale”. Il fumettista è sempre rappresentato come una figura vessata, triste, malata, stanca, umiliata e offesa. Così come i “comics” non sono per niente “comic”, per Ware il fumettista è una persona frustrata, che invidia le altre arti poiché è consapevole che il suo lavoro non sarà mai ricompensato né dai guadagni elevati percepiti, ad esempio, dai pittori o dagli illustratori, né dal successo e dal prestigio sociale degli scrittori di letteratura non grafica.
Da parte mia non posso che rallegrarmi del fatto che Chris Ware abbia scelto di rovinarsi la vita e disegnare fumetti, un medium che negli ultimi decenni si è rivelato estremamente fertile e che ha prodotto alcuni tra gli esiti più innovativi e originali della letteratura contemporanea. Le opere di Ware arricchiscono la vita di migliaia di lettori, come dimostra l’affluenza di più di 4.000 visitatori registrata dalla prima mostra italiana dedicata alle opere di Ware, Il palazzo della memoria, che si è tenuta a Bologna dal 26 novembre 2016 al 7 gennaio 2017. Semmai Chris Ware ha rovinato la vita di chi, fuori e dentro le università, continua a pensare al fumetto come a un medium minore, infantile, semplice e triviale – e purtroppo bisogna rilevare che ancora nel 2017, in Italia e all’estero, certi pregiudizi sono duri a morire!