La bravura di Connie Palmen si misura con il grado di sorpresa (e sorpresa è dire poco) che aumenta con lo scorrere delle pagine dove il titano, il “predone nero” Ted Hughes ricompare al mondo, esprimendo il tedio mai regredito in vita e probabilmente neppure in morte. Anzi, se possibile aumentò con lo svilupparsi delle speculazioni e le mitizzazioni sulla presunta (ma canonizzata da adoranti schiere) Santa Sylvia dopo il suicidio.
Accade qualcosa di speciale, non una seduta spiritica ma in una sorta di serie TV inglese (o tedesca, considerando la scrupolosa ricostruzione d’ambiente) la verità storica e la distopia s’intrecciano in episodi al cui interno memorabilmente analogico scivoliamo come testimoni elettronici. D’un tratto viaggiamo con questa coppia infernale fra Londra e Boston, in sconosciuti villaggi inglesi e americani, con tutta l’attrezzatura psichica e reale che soltanto due poeti potevano trascinare con sé. Senza contare le ingerenze e le interferenze di sorelle e genitori, amici e nemici, scrittori gelosi e platealmente innamorati dei versi di entrambi oltre che dei loro immensi corpi.
Il gigante ventiseienne dello Yorkshire punta a divenire poeta universalmente riconosciuto (“laureato”, perché no), l’irresistibile Plath (due anni più giovane), dea americana bionda e flessuosa, aspirante poeta arriva a Cambridge con una borsa di studio. Sera del 25 febbraio 1956: l’incontro descritto da Ted ha dell’epico e del disastrosamente umano. Inizia così, carico di smisurata forza carnale, il sodalizio tutt’altro che eterno fra Ted e Sylvia. Una specie di fanatismo religioso verso la poesia, unito alla indubitabile bellezza di lei fa sì che il sangue dell’uomo non trovi più pace. “Non ci eravamo abbracciati, ma saltati addosso”.
Il loro primo incontro, e i successivi, vengono descritti come assalti amorosi fra animali in calore. Difficile pensare il contrario, visto l’indole di entrambi, le vicende e le traversie occorse in lungo e in largo fra Inghilterra e USA. Durante la chiassosa festa, Sylvia non bacia Ted, lo morde in faccia. Ma attenzione, è lui che la bacia sulla bocca strappandole via la fascia dai capelli e gli orecchini. La reazione era inevitabile. Lì inizia il combattimento. La guerra inesausta. Dopo quattro mesi sono sposati, e già a quel party si scambiano versi, commentano le reazioni dei critici, le stroncature. Insomma si gettano addosso tutta la violenza sessuale e la passione poetica di cui sono saturi.
Lo testimoniano non solo il romanzo scritto da Palmen come se fosse Hughes, ma le pagine del diario di Sylvia e le poesie di Ted scritte quarant’anni dopo (Birthday Letters). Dalle prime straordinarie pagine di Tu l’hai detto si sbroglia la “carriera” letteraria e vitale dei due sposi/amanti/poeti: una messe di particolari e pensieri di prima mano, espressi da Hughes/Palmen, che ha del folgorante. La stesura di questo libro, dall’autrice definito senza mezzi termini romanzo, ha certamente richiesto un lungo e profondo lavoro di ricerca sulle fonti e nella foltissima bibliografia: non mancano diari, lettere, raccolte di versi, anche se esistono documenti ancora sconosciuti e secretati. Senza contare articoli e saggi precedenti alla morte di Hughes che hanno avuto grande influenza su un’esistenza la cui voce viene liberata grazie alle doti narrative della narratrice.
Ricordi, interpretazioni e visioni contrastano la gran parte di coloro (non soltanto femministe) che dalla morte di Sylvia Plath in poi lo accusarono di plagio, violenza e infedeltà. Certamente Hughes non fu un santo, lui stesso ammette di essersi innamorato di un’altra donna, di averla frequentata poco tempo prima di quel terribile 11 febbraio 1963 quando Sylvia, dopo aver sigillato con stracci la porta della camera dei due figli, infilò la testa bene in fondo al forno e aprì il gas. La loro unione, da tempo sfilacciata e consumata da quella tempesta d’amore e di vita, difficilmente poteva durare a lungo dopo il torrido incontro del 1956. L’ego fluviale del marito, le gravidanze, il nomadismo, i contrasti familiari (la sorella del poeta detestò fin dal primo sguardo la poetessa) l’energia tributata al sacro fuoco della poesia (selvaggiamente da Sylvia, compostamente da Ted), i rapporti difficili con l’allora società letteraria nonostante l’incontestabile successo di entrambi (avvenuto, ricordiamolo in età molto giovane: quando si conobbero lui aveva 26 anni, 24 lei), corrose fino in fondo le loro anime divoratrici.
Le pagine rivolte da Palmen alla vita “postuma” di Hughes, il “sopravvissuto alla dea”, come lo definisce Nicola Gardini nel bel saggio inserito nel Meridiano a lui dedicato, mostrano con evidenza il dolore e il furore provati contro la spietatezza degli eventi, e l’incapacità di sostenere fino in fondo la moglie perduta. Autopsia e funerale erano solo l’inizio di quanto avvenne dopo. Il nodo indissolubile fu pagato con l’essere ostaggio di un mito, condannato a esecutore morale di un suicidio, capro espiatorio da punire.
Hughes si ribella alle parole che gli sono state riservate dai biografi, e buona parte dei suoi sentimenti (nel bene e nel male) si leggono nelle poesie di Lettere di compleanno, scritte decenni dopo, unico modo per ricongiungersi alla sposa e liberarsi. Pubblicò Ariel, testamento poetico di Sylvia e bruciò l’ultimo suo diario per paura che finisse in mano ai figli. Un’azione dovuta la prima, un tradimento la seconda. Ecco l’anima divisa di Hughes, durata fino alla morte per infarto nel 1998 (ma era da tempo malato di cancro al colon).
Connie Palmen è riuscita (tradendo o non tradendo qui pare trascurabile) a trascrivere le alture e le bassure casalinghe e sociali della coppia, dove i versi dell’una e le fascinazioni dell’altro incarnano le crudeltà che si aggiravano fra quelle pareti. Nei meandri dell’amore sfrenato e del carnage, il libro mette mano alle sofferenze umane incrociate alla classicità letteraria anglo-americana. E questo vale molto più degli addobbi d’antichi e moderni saggi accademici. (e.g.)
La versione di Hughes
Quella tra Sylvia Plath e Ted Hughes è «la storia d’amore letteraria più tragica dei nostri tempi» – o così titolava il 17 gennaio 1998 la prima pagina del Times, annunciando in anteprima a caratteri cubitali la pubblicazione della raccolta di poesie di Hughes The Birthday Letters (Lettere di compleanno, a c. di Anna Ravano, intr. Nadia Fusini, Einaudi, 1998), con cui il poeta inglese rompeva il lunghissimo silenzio sulla sua vita privata e ripercorreva in versi le vicissitudini del suo primo matrimonio – un’anteprima talmente succulenta che il quotidiano britannico se l’era assicurata per ben 25.000 sterline, confezionando il “pacchetto” con tanto di fotografie sensazionalistiche.
Dal giorno del suicidio di Plath, avvenuto nelle prime ore dell’11 febbraio 1963, innumerevoli sono state le biografie, gli studi critici e le rielaborazioni finzionali che hanno raccontato, immaginato, plasmato e reinventato la vita della poetessa, cercandovi un motivo per il suo gesto estremo, dalla malattia mentale alla confusione fatale tra realtà e poesia – opere più o meno rigorose, aggressive e/o faziose che hanno di volta in volta interpretato la sua morte come un gesto di emancipazione ultima, una dichiarazione di fallimento artistico, una ribellione all’autorità patriarcale, finanche un atto di esibizionismo estremo. Di Hughes, invece, esiste a tutt’oggi un’unica biografia (Ted Hughes: The Unauthorized Life, di Jonathan Bate) e le sole fonti per ricostruire la sua versione dei fatti sono, appunto, le Birthday Letters e una selezione della sua corrispondenza, a cura di Christopher Reid (significativamente, né la biografia né le lettere sono state tradotte in italiano). Il risultato è che la critica di stampo femminista – specie tra gli anni Sessanta e Ottanta – ha voluto raffigurare Plath come una «fragile santa», trasformando invece Hughes in un «brutale traditore».
Il libro della scrittrice olandese Connie Palmen – nata il 25 novembre 1955, pochi mesi prima del fatidico incontro tra Ted e Sylvia – ha il merito di restituire la parola a Hughes in un memoir finzionale scritto in prima persona dal punto di vista del poeta inglese. La rimembranza di Hughes comincia pochi mesi dopo che il poeta ha dato alle stampe le Birthday Letters, nel momento in cui decide finalmente di «svelare la prima persona singolare» che teneva «nascosta a tutti dietro la maschera di una metafora o di un’analogia». In un atto di ventriloquio assolutamente credibile, Palmen dà vita a una rievocazione tanto entusiasmante quanto commovente, basandosi sulle fonti biografiche più rigorose e attingendo a piene mani dalle Birthday Letters, ma soprattutto rielaborando le sensazioni e gli avvenimenti adombrati nelle poesie della coppia attraverso un linguaggio che partecipa della scorrevolezza narrativa della prosa pur mantenendo intatte le suggestioni mitizzanti del verso poetico.
Sin dall’incipit Palmen lascia spazio allo sfogo di Hughes, costretto ad assistere «con impotente ribrezzo a come le nostre vite reali sono state sommerse da un’onda fangosa di racconti apocrifi, false testimonianze, pettegolezzi, invenzioni, leggende», in una «piazza di paese con me al centro che, nudo e legato alla gogna, offro spettacolo a un pubblico in cerca di sensazioni forti mentre sgranocchia noccioline». Il riferimento è alla poesia di Hughes rivolta ai figli e intitolata “I cani stanno mangiando vostra madre”, ma anche ai versi del famoso componimento di Plath “Lady Lazarus”: qui, come in diverse parti del libro, Palmen mescola con sapienza motivi delle poesie di Hughes a suggestioni tratte dai versi della poetessa americana, assecondando quella compenetrazione di spiriti affini a cui i due sposi anelavano durante il periodo trascorso insieme – quell’unione transatlantica di immagini simboliche condivise, conflitti predestinati e tragedie archetipiche «di cui la letteratura prova ininterrottamente a dipanare le fila». Perché «quella che tutti chiamano fantasia è invece la scoperta di verità universali che ritornano eternamente in tutta la loro mostruosità, inesauribili nella distorsione di quella che è sempre la stessa cosa: la lotta coniugale tra il bene e il male».
Alla fine del libro la voce di Hughes arriva a fondersi con quella dell’autrice, quando il poeta afferma di aver «riversato la mia anima di piombo in quel fragile stampo, sono uscito con lei allo scoperto e l’ho detto: io». Ma chi è qui a dire «io»? Se da un lato la scelta di Palmen favorisce un’inedita rilettura del complicato rapporto coniugale attraverso gli occhi del marito, dall’altra la sua ricostruzione corre il rischio di diventare un’ennesima appropriazione della vita altrui – molto simile alla selezione operata dallo stesso Hughes sulle poesie di Plath da includere nella raccolta Ariel dopo la morte della poetessa, o all’arbitraria distruzione di uno o più diari della moglie per scongiurarne la lettura ai figli.
Frieda Hughes, oggi a sua volta un’affermata poetessa, nonché curatrice della versione “restaurata” di Ariel, ha scritto: «Per me, in quanto sua figlia, ogni cosa associata a mia madre era miracolosa, perché così la faceva apparire mio padre». Con la sua scelta inconsueta, Palmen è riuscita a restituirci un’immagine umana di Sylvia Plath attraverso gli occhi dell’uomo che la amava, il padre dei suoi figli, il poeta che lei ammirava e venerava, odiava e temeva. «Non volevo che la morte di mia madre fosse commemorata come se avesse vinto un premio», scrive ancora Frieda, «volevo che ad essere celebrata fosse la sua vita, il fatto che era esistita, aveva vissuto nel pieno delle sue capacità, era stata felice e triste, tormentata ed estatica, e aveva dato vita a mio fratello e a me». Sotto questo aspetto, l’encomiabile libro di Palmen troverà di certo la sua approvazione.
Ma ricordare – soprattutto per interposta persona – significa inevitabilmente tradire. Palmen ne è assolutamente consapevole e con la voce di Hughes cita Oscar Wilde: «Tutte le grandi menti si fanno i propri discepoli, ma alla fine è sempre Giuda a scriverne la biografia». Il titolo del libro conferma questo punto di vista: quando Gesù annunciò il suo imminente tradimento da parte di uno dei discepoli, Giuda chiese: «Rabbi, sono forse io?» e si sentì rispondere: «Tu l’hai detto». (p.s.)