È questo un saggio difficile da riassumere e presentare, tanti sono i discorsi che in esso s’intrecciano in modo del tutto inestricabile. Certo, ci si potrebbe semplificare la vita dicendo che Viet Thanh Nguyen ci parla di come i vietnamiti e il loro paese sono stati rappresentati dagli americani in modo spesso distorto e unilaterale, con Apocalypse Now a fare da bestia nera, superato forse soltanto da Gran Torino, che per Nguyen è un film ingegnoso, originale, compassionevole, però pericoloso come “una piccola bomba intelligente”. D’altro canto, Niente muore mai ci presenta anche scrittori e artisti vietnamiti che raccontano o raffigurano il proprio paese e la propria storia e della guerra indissolubilmente ad essi legata; così facendo, ci fa conoscere una serie di nomi del tutto ignoti da noi, a partire da GB Tran, autore del notevolissimo graphic novel Vietnamerica, per arrivare alla scrittrice Kwa Kalia Yang, e al suo memoriale famigliare The Latehomecomer. (Incuriosito, ho comprato Vietnamerica e sono ben lieto di averlo fatto.)
Già solo per questo Niente muore mai sarebbe un libro prezioso, che esplora un territorio pressoché sconosciuto in Italia e non proprio arcinoto negli Stati Uniti, dove le narrazioni sul Vietnam dominanti sono i film prodotti da Hollywood (dal Cacciatore, anzi, da Berretti verdi…) e i libri scritti da reduci dell’esercito a stelle e strisce, come Hasford, Herr e O’Brien. Ma qui non troverete solo la critica di una produzione artistica sospetta e la cartografia di un’altra, marginalizzata.
Tanto per complicare il quadro, Nguyen fa una distinzione tra vietnamiti restati nel loro paese e quelli che a causa della guerra e della vittoria del Nord hanno dovuto lasciare Vietnam per stabilirsi negli Stati Uniti, ospiti della stessa potenza responsabile di aver scatenato il disastro che in ultima analisi li ha forzati a emigrare. Poi c’è da distinguere tra vietnamiti e hmong, la minoranza etnica di remota origine cinese che vive tra Vietnam, Laos, Cambogia e Thailandia, cui appartengono gli immigrati di Gran Torino (nonché la summenzionata Kwa Kalia Yang); non bastante ciò, Nguyen si occupa anche degli altri due paesi travolti dalla guerra del Vietnam, Laos e Cambogia, dato che non finisce tutto quando cade Saigon (oggi ufficialmente Ho Chi Minh City, o se preferite Thành phố Hồ Chí Minh, come dicono loro). Segue infatti un’attenta disamina dell’orrorifica epopea di Pol Pot e dei Khmer rossi, e di come gli artisti cambogiani hanno cercato di rapportarsi ad essa; nonché una ricostruzione dell’intervento dei coreani (del sud) al fianco degli americani contro i Vietcong, e anche loro hanno qualcosa da raccontare, sul grande schermo o sulle pagine stampate. Infine, pur con un’inestinguibile vis polemica – tutt’altro che ingiustificata – Nguyen ricomprende nel suo discorso alcune voci americane, ad esempio quella di Larry Heinemann, autore di tre romanzi e un memoriale mai tradotti in italiano, nonostante uno dei suoi libri abbia vinto il National Book Award.
Non finisce qui. Essendosi occupato a lungo, come docente universitario, di quella che negli Stati Uniti viene chiamata ethnicity, e cioè la questione delle tante diverse radici culturali di una nazione di immigrati dalle cento minoranze (tra cui ormai ha una storia anche quella vietnamita), Nguyen riflette incessantemente sui temi e i problemi di quel campo di studi che in varie forma affronta questa diversità nel bene ne nel male, che si tratti dell’identità afroamericana o di quella ebraica o italoamericana (identità tutte inseparabili dall’esperienza storica più o meno remota della migrazione); e i suoi sono ragionamenti tutt’altro che astratti, perché lui la condizione dell’emigrato, del profugo, del rifugiato l’ha vissuta sulla sua pelle, con la sua famiglia che prima lascia il tormentato Nord Vietnam per cercare sicurezza nel sud, e poi finisce coll’emigrare negli Stati Uniti. Nguyen è ben consapevole di non essere del tutto vietnamita né del tutto americano, e questa posizione a metà tra i due paesi e le due culture e le due parti in lotta gli consente di articolare un discorso che tenga conto della dualità intrinseca delle cose, per usare termini che ricorrono in Niente muore mai, dell’umanità e disumanità di vittime e carnefici, di vietnamiti e americani, di occupanti e occupati, di violentatori e violentate, di occidentali e orientali e via così.
Inoltre, non si può ignorare l’interesse che questo ponderoso saggio assume per chi come me si è occupato a lungo di letteratura di guerra; ma sarà una lettura irrinunciabile anche per chi opera nei cultural studies, negli studi delle migrazioni, nelle questioni di identità etnica e nazionale, nelle discussioni su letteratura mondiale e globalizzazione (tutti temi che dire caldi è ben poco). Mi preme però sottolineare che qui in Italia Nessuno muore mai mi sembra una lettura obbligata per tutti quelli che tra anni Sessanta e Settanta si schierarono dalla parte del Nord o da quella del Sud, per chi manifestava contro l’imperialismo americano e chi invece (di solito senza scendere in strada) riteneva che la minaccia dei rossi andasse arginata anche in quel remoto (per noi) angolo del pianeta. Un tempo il Vietnam era l’argomento di tutti i giorni, ben più della Siria e della Libia e della Corea di oggi: ci entrava in casa a ogni telegiornale, con ogni quotidiano, quando si parlava con gli amici, quando s’accendeva la radio, quando si incrociava una delle tante manifestazioni d’allora. Come al solito c’erano due tifoserie, che non sempre avevano le idee molto chiare, ma s’accanivano come se le nostre vite dipendessero da quel che succedeva sopra e sotto il 17° parallelo nord. Poi, di colpo, fuggiti gli americani (e parecchi vietnamiti) dall’allora Saigon, fine della storia. Qualche notizia sulla cosiddetta boat people, e poi più niente. Ora ci farebbe bene leggere questo libro per riflettere su come andarono le cose prima e dopo il 1975, prima che Vietnam e vietnamiti sparissero dai nostri media per ricomparire subito dopo sequestrati nel bene e nel male da Hollywood con una serie di film che invertirono i poli della questione, facendo dei soldati americani più le vittime dei carnefici (e questo, con buona pace di Nguyen, lo fa Platoon assai più che non Apocalypse Now).
Ma è solo un libro sul Vietnam? Assolutamente no, e qui sta forse il suo maggior motivo di interesse. Questo è anche un saggio sull’America. Su quella imperiale, che dal 1941 in poi è stata pressoché costantemente in guerra nei più diversi teatri, combattendo conflitti palesi o nascosti, direttamente o per interposto satellite (leggi: Israele, ma non solo quello), al servizio dei più svariati interessi strategici, politici, ideologici ma sempre e soprattutto economici. In questa vicenda pluridecennale il Vietnam costituisce uno snodo cruciale, se si pensa che lì si sono fatti le ossa Powell, Petreus e gli altri comandanti militari statunitensi che hanno gestito le varie guerre “umanitarie” degli ultimi anni, da Golfo I e II alla Siria e oltre (non c’illudiamo che finisca qui). Nguyen analizza soprattutto i meccanismi tramite i quali l’industria della memoria (come la chiama giustamente lui) riesce a far metabolizzare al pubblico sconfitte, atrocità, devastazioni, tutta la scia di rovine materiali e spirituali che gli Stati Uniti si sono lasciati alle spalle nel corso del nostro “secolo americano” (che nonostante le chiacchiere da Facebook non è ancora terminato).
Infine c’è un’ultima ragione per leggere Niente muore mai, e certo non in ordine d’importanza: Nguyen è scrittore di stile, che alterna l’analisi e lo scavo concettuale a veloci narrazioni di esperienze personali, come le varie visite a luoghi dell’orrore come la Piana delle Giare bombardata dai B-52 o l’agghiacciante lager S-21 dove i Khmer rossi misero in atto il loro genocidio low cost. Nguyen è pur sempre l’autore del Simpatizzante e de I rifugiati, quindi prosatore tutt’altro che asettico e arido. Ulteriore motivo per affrontare una lettura certo non rassicurante, ma – dati i tempi – purtroppo indispensabile.
(Di Viet Thanh Nguyen abbiamo già recensito la raccolta di racconti I rifugiati e il romanzo Il simpatizzante, sempre editi da Neri Pozza.)