Un monologo, forse un romanzo. The Appointment, esordio di Katharina Volckmer, titola l’originale, con l’aggiunta di Or, The Story of a Jewish Cock, che nella versione italiana (tradotta mirabilmente da Chiara Spaziani) si trasforma nella rasoiata – appena attutita da un paio di stellette azzurre in copertina – di Un cazzo ebreo. La donna che parla al dottor Seligman, chirurgo plastico, detiene un potere che gli deriva dall’esperienza vitale precedente, a dir poco malinconica, a dir poco drammatica, sul filo di un’identità fluida e quanto meno avvolgente. Donna, forse, forse uomo, o entrambi sempre al limite di un precipizio che è, prima di tutto, d’amore. Il sogno ricorrente, insano, d’essere sul balcone nei panni di Hitler, è la prima dichiarazione in cui ci s’imbatte, unita al ragionamento secondo cui lo sterminio di un popolo passerebbe attraverso la mancata accettazione del proprio corpo da parte dell’uomo con i baffetti. Odio verso sé stesso, e inconcepibile distruzione di un intero popolo.
Da tale premessa prende l’avvio un discorso che sembra non finire mai, rivolto al dottor Seligman mentre non si capisce cosa stia facendo (o forse sì), chino davanti a lei, quest’uomo silenzioso. L’incontro avviene per qualche ragione misteriosa, e improvvisamente le singolarità mentali della donna diventano una costante ricolma di biografia eccentrica, tragica e a tratti sovversiva. Le stranezze della società in cui la donna vive diventano i fatti patetici e sinistri di un’epoca, l’odio razziale e la guerra, le infezioni e la caduta a picco del pianeta, sull’onda di volgarità piazzate sotto casa, spazzatura e escrementi, compresi i sogni che alla fine puzzeranno di pipì.
Ma la solitudine di un cuore spezzato, dovuta a amori che non hanno infranto la solitudine, emerge da una profondità che s’intuisce vasta e sottile, verosimilmente labirintica. Innamorarsi per lei (forse per tutti) non è cosa facile, la realtà non corrisponde all’immagine che uno se ne fa, e d’altronde non esiste attrezzo elettronico che possa soddisfare i bisogni sessuali, nemmeno gli standard elevatissimi dei robot giapponesi del signor Shimada. Nemmeno l’intimità con un oggetto sembra alleviare il dolore della donna. Ma la lucida critica verso questi attrezzi elettronici, nati esclusivamente per i supposti bisogni maschili, fa suonare un piccolo avvertimento nella mente del lettore. È triste ammetterlo, confessa, ma il bisogno di un cazzo si scontra con la (verosimile) idea che i robot maschi potrebbero risultare pericolosi. E dunque a lei non resta che smettere d’interessarsi alla violenza sopportata, e alla lunga dimenticarla. La carnalità suscitata da Hitler suscita reazioni senz’altro emotive nel lettore, dunque non v’è traccia di erotismo nel romanzo, dimenticatevi descrizioni equivoche e ipocrisie camuffate. La vana potenza dell’omuncolo tedesco non è stata avara di una storia inconcepibile, in pieno Novecento. Ma in questa donna il livello d’insània non le preclude la critica diretta, acuta, e a tratti anche divertente, verso i consorzi industriali e psichici che dirottano il mondo in vortici distruttivi e inconfessabili.
Ma la tristezza pervade tutto il monologo. Le complicazioni si susseguono in un elenco che prende in carico una madre brutta, uno psicologo imposto dalla società, conversazioni familiari simili a un aspirapolvere ficcato nel cervello, trasformazioni ormonali del corpo, e le strane emozioni di K, uomo sposato con cui si tenta una storia. E la visione della gabbia in cui stanno gli uomini, i bagni pubblici progettati come se esistesse soltanto il genere maschile, tanto che alla fine l’amore non darà mai libertà ma un seguito di situazioni aberranti in luoghi bui.
Quasi un’ostinata serenità rapprende il romanzo (se di romanzo si tratta) in un luogo da cui non si esce, ma soprattutto vi si entra con le nostre storie private, con i ricordi di sesso e di “cose che non vanno per il verso giusto”, quando all’improvviso ci accorgiamo che siamo discordi rispetto alla forma di un oggetto, di un desiderio, di un amore non corrisposto o deludente. Leggendo verrebbe voglia di rendere irreparabile un pensiero, di confessarlo a chi fino a quel momento ci sembrava lontanissimo, e probabilmente lo era. Ognuno possiede il proprio dottor Seligman, e una raccolta di voglie inconfessabili verso personaggi insalubri. Ma pochi si preoccupano di destabilizzare storie inconcludenti, mirando a vantaggi programmati ricolmi di scorie. La monologante, cresciuta come una donna, nello studio medico sta conducendo una transizione, fisica e mentalmente primordiale. Le foto della famiglia di Seligman la disturbano, non riesce a pensare all’infelicità altrui. È come se il dolore migrasse tutt’intorno fino a raggiungere l’acme nelle ultime pagine del libro quando le cose indecifrabili si mischiano al mito della verità, mito in cui ci si perde non meno e la malvagità appare inseparabile dall’intelligenza. La visione ebraica del paradiso, o di un cazzo, pervade l’intera sostanza della donna: forse è la parte maschile che non vorrebbe ma che le gettiamo addosso ogni volta che voltiamo pagina. La condizione del lettore ora è sovvertita dalla bravura di Volckmer (nata in Germania nel 1987, ha scritto in inglese questo suo primo romanzo, libro dell’anno 2020 secondo The Times Literary Supplement) e che espande intorno alla sua opera una nuvola impervia d’improvvisa coscienza, di cose che stanno così e non ci piacciono affatto. Ma sono nostre. Così come interamente sua è la volontà della monologante che capisce quanto vera possa essere l’amicizia con un estraneo.
Alla fine la notte è scesa, cade una soffice neve, lei che non si è “mai preoccupata dell’innocenza” capisce che la seduta è terminata, si rimette i pantaloni e il dottor Seligman si sfila i guanti. Poi ripensa al nonno che semplicemente era il capostazione dell’ultima stazione ferroviaria prima di Auschwitz, dove i treni sostavano l’intera notte. La neve scende e forse non è neve. Ma quell’uomo devoto non faceva male a nessuno. Siamo alle ultime battute, la prosa ritmicamente differenziata di Volckmer cambia all’improvviso. Infine, in un attimo, niente è più come prima.