La pesca, si sa, non è soltanto procacciamento di cibo, un hobby o uno sport. Pescare, per alcuni, significa stringere amicizie, rafforzare i legami di parentela, trasmettere sapere, mantenere vive antiche tradizioni. Per altri pescare è ricavarsi uno spazio privato invalicabile, una fuga dalla cosiddetta civiltà e dai problemi quotidiani, un trovare rifugio nella natura, una vagheggiata comunione con essa. Dunque perché non raccogliere un’antologia di racconti a più voci sull’argomento? Questo si sono chiesti gli scrittori statunitensi David Joy ed Eric Rickstad, loro stessi appassionati pescatori. L’idea era suggestiva: riunire in un libro le avventure e i ricordi di altri narratori-pescatori, delle più varie età e provenienze geografiche. In fondo, riflettevano i due, la pesca è un’attività innatamente letteraria, si presta alla riflessione filosofica, reca in sé un afflato spirituale. E chi vi si dedica è di solito un abile affabulatore, con una propensione all’epica, all’enfasi e all’iperbole – se poi si tratta di scrittori…
Ebbene, l’idea ha preso corpo in un volume affascinante, Al fiume. 25 scrittori sulla pesca, pubblicato in Italia da Jimenez, editore che si segnala per il fiuto con il quale attinge alla narrativa americana contemporanea di qualità. Tra gli autori dei racconti figurano, oltre agli stessi curatori, figure di spicco come C.J. Box, Silas House, Ron Rash, Chris Offutt, Jill McCorkle, artisti, donne e uomini, delle più varie regioni dell’enorme melting pot di culture ed etnie che compongono gli USA, del nord come del sud, dell’est come dell’ovest e del Midwest.
Il risultato di questa sorta di esperimento letterario può davvero dirsi riuscito. Il libro si legge con estrema gradevolezza, le vicende narrate, quasi tutte di stampo prettamente minimalista, conducono il lettore nel cuore palpitante della geografia americana, tra i monti e i ruscelli del Kentucky e dell’Indiana, il mare e le paludi della Louisiana, i laghi e i corsi d’acqua della Carolina, del Tennessee, del Mississippi, della Georgia, del Massachusetts, dello stato di New York, del Colorado e della California, le spiagge e l’oceano di Isla Verde, Porto Rico. L’acqua, con il suo eterno fluire, la vita che contiene e dona in ogni forma, ispira queste storie che viaggiano nel tempo e nello spazio, affondano nei ricordi, in un mondo sospeso che si alterna ad un presente spesso emotivamente misero, scarnificato di sensi e significati. Racconti che rendono poetico omaggio a posti remoti e solitari, non ancora aggrediti dalla rapace civiltà dei consumi e dal criminale sfruttamento delle risorse naturali, autentici luoghi dell’anima, com’è nella lunga tradizione letteraria e filosofica americana che vede nella natura l’unica ancora di salvezza per l’essere umano. Storie che compongono, pur con le loro peculiarità, il ritratto di una nazione complessa e composita che ha smarrito la propria identità, di individualità e culture che trovano nella fine del “sogno americano” – ormai da tempo trasformato in incubo – il loro sostrato comune, un collettivo cahier de doléance.
La considerazione sul come eravamo e sul come siamo diventati è dunque il tratto dominante di questa raccolta, unito alle esperienze formative d’un’infanzia vissuta con il rito di passaggio della pesca, alla riflessione anche metanarrativa sul valore dell’osservazione e dell’attesa (Al di là delle sponde, Ray McManus). Non a caso, la modalità espressiva è quella del memoir, del racconto in prima persona, declinato nei più vari registri, dal lirico al realistico, dal drammatico al nostalgico, ma anche con squisita autoironia (Esca, Chris Offutt), e come genere persino con propaggini nel crime (Paducah ’80, J. Todd Scott), nel racconto scientifico (Esca per squali, Leigh Ann Henion, Sucker, Jim Minick), nel conte philosophique (Transitorio, Todd Davis).
Sorprende forse la scarsità di racconti squisitamente narrativi (a parte Gould’s Inlet di Taylor Brown che apre la raccolta, o Ninnananna di J.C. Sasser, in parte il citato Paducah ’80), la scarsità dei dialoghi (eccetto Niente di più assurdo, Frank Bill), l’uso della terza persona, come se il libro fosse lo specchio di un trend ben avvertibile della narrativa contemporanea. Ma è pur vero che, parlando della fuga dalla civiltà e del contatto umano con la natura, nella tradizione americana esiste un riferimento letterario e ideale probabilmente ineludibile, David Thoreau. Al quale è ascritta una frase che si attaglia perfettamente al significato ultimo di questa antologia: “Non sono i pesci ciò che cercano i pescatori”.