Tra le nuove proposte per il 2021 il Saggiatore ne presenta una che ha fatto e farà discutere: la nuova edizione di The Waste Land (1922) di T.S. Eliot curata da Carmen Gallo. Si intitola La terra devastata, una scelta che va controcorrente rispetto a una tradizione oramai consolidata da almeno novant’anni. Da sempre, almeno fin dal 1932, anno di pubblicazione della prima traduzione italiana integrale del poemetto di Eliot da parte di Mario Praz, per noi lettori italiani The Waste Land è La terra desolata. Una traduzione parziale di una sezione del poemetto era già apparsa nel 1926 su La fiera letteraria, sempre a cura di Mario Praz. La terra devastata di Carmen Gallo rompe dunque una tradizione ben consolidata e “canonizzata”, una consuetudine del lettore italiano con il testo di Eliot che ha radici profonde. Oltre a una nuova traduzione, il volume contiene un saggio introduttivo e un commento, che già di per sé meriterebbero l’acquisto del volume.
Al recensore scrupoloso che si accinge a rileggere per la milionesima volta i versi della Waste Land, e – per non lasciare nulla di intentato – a rivedersi per la sedicesima volta Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, compresa l’ultima versione rivista e (re)integrata da Coppola, Apocalypse Now Redux, sorge spontanea una domanda: ma che bisogno c’era di cambiare il titolo di quest’opera, che ha segnato in modo indelebile il Novecento e la formazione di tanti intellettuali e poeti italiani, a partire dallo stesso Montale? Si può cambiare ciò che è già perfetto? Si può affrontare un mostro sacro come T. S. Eliot e cambiargli i connotati – per così dire – almeno per il pubblico italiano? Si può mettere in discussione una delle traduzioni più importanti di un altro mostro sacro come il nostro Mario Praz? Il dibattito è aperto, e in questo nostro scritto cercheremo di analizzare i pro e i contro di questa scelta di Carmen Gallo, docente di Letteratura Inglese presso l’Università La Sapienza di Roma e poetessa lei stessa, che ci impone di prendere posizione. I’ll take my stand, come diceva il manifesto dei Southern Agrarians, intellettuali americani conservatori e “sudisti” proprio come Eliot.
Nell’opera di T. S. Eliot (St. Louis, 1888 – Londra, 1965), nonostante sia passato quasi un secolo dalla prima pubblicazione di The Waste Land, troviamo ancora oggi esemplificati alcuni dei paradossi della nostra epoca moderna e contemporanea. I suoi gusti letterari erano in apparenza tradizionali (Eliot si proclamava classicista in letteratura e negava la possibilità della scrittura automatica), eppure sia la Waste Land che alcune delle sue poesie più tarde potrebbero essere definite, non senza ragione, “poesie astratte”, sarebbe a dire poesie che, invece di celebrare la pienezza del significato, o almeno una nostalgia per questa pienezza, sono ossessionate dall’assenza di significato che caratterizza l’epoca moderna e contemporanea. Rapsodizzando nel vuoto, “connect(ing) Nothing / With Nothing”, in base a quanto afferma lo stesso Eliot nel suo fondamentale saggio Tradition and the Individual Talent, Eliot riuscì ad ottenere una vittoria parziale sulla tradizione creando uno spazio per la sua poesia, una mancanza di significato che rendesse possibile produrre nuovi significati.
William Carlos Williams descrisse, nella sua Autobiografia, la pubblicazione di The Waste Land come una delle più grandi catastrofi che si siano abbattute sulla letteratura americana negli anni Venti, una catastrofe che impedì la nascita di una nuova poesia americana nativa più aderente alle cose, come auspicato da Williams. Lo stesso poemetto di un altro grande autore del Modernismo americano, The Bridge (1930) di Hart Crane si pone esplicitamente come una risposta americana a Eliot. Ancora negli anni Cinquanta, Wallace Stevens scriveva che Eliot rappresentava quanto di più antitetico a lui si potesse immaginare; ma già nelle pagine di Williams si percepisce una totale contrapposizione dello scrittore di Paterson alla cultura cosmopolita di Eliot e Pound. In realtà Eliot, e soprattutto quello dei Four Quartets, è molto più americano e whitmaniano di quanto egli stesso volesse far credere.
Tutti i poeti successivi hanno sentito la necessità di distinguersi da Eliot, di prendere le distanze, e si comprende facilmente il motivo. Non sarebbero mai potuti sopravvivere a un corpo a corpo contro il più grande poeta del Novecento.
Eliot ha fondato gran parte della sua fortuna critica sull’acuta consapevolezza della presenza del passato, una consapevolezza che pervade il saggio Tradition and the Individual Talent – un saggio così perfetto che si possono solo citare le sue parole, ma che è impossibile esplicitare meglio di quanto abbia fatto lui stesso – che ha influenzato artisti e scrittori anche lontanissimi da lui come Marcel Duchamp e Francis Bacon. Ma – in base alla vulgata eliotiana – la grande svolta nella carriera poetica di Eliot c’è stata nel momento in cui ha deciso di voltare le spalle alla tradizione letteraria americana. Eliot rifiuta la tradizione della poesia americana e va a cercarsene un’altra in Europa, quella di Baudelaire e dei simbolisti francesi, di Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Gérard de Nerval, Jules Laforgue, Tristan Corbière e di Stephane Mallarmé, oppure addirittura in Dante e nei poeti provenzali.
Eppure la migliore risposta a Eliot – se si eccettua la folgorante poesia-risposta di Emmanuel Litvinoff che si scagliò contro il suo antisemitismo (1947) – l’ha data proprio un poeta americano e allo stesso tempo – come Eliot – profondamente influenzato dalla poesia francese dell’Ottocento e del Novecento come John Ashbery (Rochester, 1927 – Hudson, 2017), che è riuscito a trasformare il retaggio di Eliot in una poesia in cui domina un’apparente nonchalance. Infatti nelle poesie di Ashbery gran parte del bagaglio culturale del Modernismo è oramai ridotto a un cliché, che l’artista tardo modernista – o postmoderno che dir si voglia – si limita a citare come qualsiasi altro frammento della nostra cultura ridotta ormai – a partire proprio dalla Waste Land – a un cumulo di rovine. Già in Wallace Stevens, il tentativo quasi disperato di Eliot di puntellare con i suoi versi le rovine della civiltà europea, si era trasformato in un più spensierato “picnic tra le rovine”.
La tradizione poetica – nella versione che ne dà Ashbery – si trasforma nel lussuoso party in una grande villa sugli Hamptons, famosa zona esclusiva di Long Island, dove i ricchi e annoiati newyorchesi invitati discutono, intorno a una enorme piscina, di Michelangelo, ma soprattutto di arte contemporanea, dell’ultima mostra alla galleria di Leo Castelli a New York e dell’Action Painting, di Robert Rauschenberg e di Jackson Pollock, senza mostrare alcun segno di quella angoscia dell’influenza individuata da Harold Bloom nei poeti che si trovano a dover affrontare i loro predecessori, che non hanno lasciato loro nulla di originale da dire. Una teoria molto più eliotiana di quanto lo stesso Bloom sia disposto ad ammettere.
Spesso i poeti contemporanei hanno sentito la necessità di recarsi presso il luogo di sepoltura di Eliot e di andare a dissotterrare con i loro unghioni il cadavere ingombrante del Re del Modernismo, onde evitare che germogliasse troppo e si riconoscesse nella loro poesia non la loro voce originale, ma quella del loro ingombrante precursore. Eppure, nonostante tutto, quel cadavere continua a germogliare.
La nuova edizione, curata da Carmen Gallo, si intitola dunque La terra devastata. Gallo giustifica questa sua scelta con la necessità di ricollegare le “rovine” del poemetto alle distruzioni della Prima Guerra Mondiale, i cadaveri insepolti di The Waste Land alla carneficina della Grande Guerra. Dunque La terra devastata sarebbe l’Europa devastata dalla Prima Guerra Mondiale. In via di principio la scelta potrebbe anche essere corretta: ma allora non si capisce perché il poeta non abbia scelto di intitolare il suo poemetto The Wasted Land. A un certo punto Gallo si mette anche a discettare sul termine latino vastus e sul verbo vastare che significa “devastare”. Eppure in questo modo si perde tutta una serie di allusioni e di riferimenti, si perde tutta la catena semantica che dalla terra desolata porta alla sterilità del Re Pescatore di James Frazer e di Jessie L. Weston, e dunque al concetto di una terra sterile, desolata perché il suo Re è ferito o impossibilitato a generare nuovi figli, e di conseguenza la terra è diventata sterile e non produce più frutti, non nutre più i suoi abitanti. Si perde insomma il significato del termine terre gaste che ritroviamo nella Leggenda di Parsifal e del Graal, nei poemi cavallereschi di Chretien de Troyes e di altri, tutto il cotè antropologico di Eliot, che invece è un elemento essenziale nella comprensione di The Waste Land.
Coerentemente con questa sua scelta di traduzione, il saggio introduttivo di Carmen Gallo è costruito come una vera e propria mappa della terra devastata eliotiana e si snoda attraverso tutta una serie di città e di luoghi (New York, 1968; Parigi, 1922; Congo, 1890; Dardanelli, 1915; Cartagine, 146 a.C.; Monaco, 1911; Londra, 1922) e di epoche anche molto lontane tra loro (l’epoca dell’Impero Romano e il colonialismo europeo, la Prima Guerra Mondiale e il primo dopoguerra dei trattati di pace).
L’aspetto sicuramente più interessante di questa Introduzione è l’idea di tracciare una mappa del territorio delineato da Eliot, una mappa della Terra desolata (ci scuserà Carmen Gallo se continuiamo ad usare questa resa del titolo secondo noi estremamente efficace), facendo tappa in tutte le capitali di questo itinerario che ci conduce dritto dritto verso il disastro della Cultura Occidentale.
Quale potrebbe essere una moderna mappa della terra desolata o devastata?
La nostra proposta è questa:
Milazzo 260 AC – Prima Guerra Punica
Cartagine – 146 AC – Pace cartaginese
Kinshasa – Congo 1890 – 1907 (Joseph Conrad, Cuore di Tenebra e insorgenza del Virus dell’HIV)
Campagna di Gallipoli, sui Dardanelli, 1915 – o dell’impossibilità di seppellire i cadaveri, tra cui quello di Jean Verdenal, grande amico di Eliot, morto all’età di 22 anni proprio a Gallipoli. Nei versi di The Waste Land – secondo Gallo – Eliot esprime il suo strazio di non poter seppellire l’amico morto.
Chardonne – Svizzera (vicino Losanna) 1921 – Eliot ricoverato in un sanatorio per curare il suo esaurimento nervoso
Monaco 1923 – Tentato putsch di Hitler
Parigi 1940 – Conquista della Francia da parte di Hitler
Londra 1944 – Bombardamento di Londra con le V2
New York 2001 – Attentati alle Twin Towers
Wuhan 2019 – Insorgenza del Coronavirus
Dobbiamo all’intuizione geniale di Joseph Conrad, alla citazione originale da Heart of Darkness da parte di Eliot – “The horror! The horror!”– poi purtroppo cassata da Pound – e alla geniale ripresa della tematica coloniale conradiana nel capolavoro cinematografico Apocalypse Now di Coppola, l’individuazione del Congo e del Sud-Est asiatico come le zone in cui il colonialismo ha potuto finalmente specchiarsi in tutta la sua inumanità, in cui è nato il mondo spietato e terribile in cui viviamo ancora oggi, un territorio selvaggio da cui hanno preso le mosse le nuove guerre asimmetriche, un nuovo tipo di terrorismo e due epidemie che hanno cambiato la storia del mondo, l’Epidemia di AIDS (che secondo gli studi più recenti, sarebbe iniziata in Congo nel 1907-08), e l’epidemia di Coronavirus che è iniziata nel sud della Cina nell’autunno del 2019 e ha già prodotto milioni di morti. Ed è ancora la Cina, con il suo grande progetto neocoloniale e neoimperialista di conquista planetaria, a partire proprio dall’Africa, che controlla in modo quasi monopolistico tutte le principali materie prime del Congo, materie prime che sono essenziali per la produzione dei moderni smartphone e computer e che consentono dunque alla Cina di dominare un mercato che sarà essenziale anche nei prossimi decenni. Ancora una volta, come un secolo fa, il benessere dell’Occidente si basa sullo sfruttamento neocoloniale delle risorse del Congo. Chissà cosa avrebbero scritto Conrad e Eliot di questo nuovo (ma sempre uguale) scenario geopolitico, quale nuovo Cuore di Tenebra e quale nuova Waste Land, quali nuove opere sarebbero nate da questi orrori del Novecento inoltrato e di inizio del Terzo Millennio.
Il recensore che si accinge per la milionesima volta ad affrontare il testo di Eliot, che rimugina il testo originale di Eliot per l’ennesima volta, che sente risuonare ancora una volta la voce ieratica di Eliot che declama la Waste Land, si rende conto che la nuova traduzione di Gallo coglie alcune sfumature nuove del testo, restituisce nuova linfa vitale e nuova freschezza al testo, con soluzioni che arricchiscono ulteriormente la nostra comprensione di un testo di cui pensavamo – sbagliando – di aver capito tutto. Ciò non toglie che, rileggendo per l’ennesima volta le vecchie traduzioni de La terra desolata, il recensore – oramai quasi cieco come Tiresia – si accorge che tutto sommato reggono bene alla prova degli anni, e ciò non deve meravigliare, dato che queste traduzioni sono state prodotte da alcuni grandi pilastri dell’Anglistica come Mario Praz, Alessandro Serpieri, Roberto Sanesi, studiosi che avevano una preparazione culturale mostruosa, l’unica che dà la possibilità di tradurre correttamente ed efficacemente il testo di Eliot.
In conclusione, la traduzione di Carmen Gallo ha sicuramente il merito di riprendere il testo di Eliot, di esplicitarne alcune sfumature di significato che erano state trascurate dalle traduzioni precedenti, e di aver colto con molta sensibilità poetica i vari registri e i vari toni (colloquiale, elevato, volgare etc.) del pastiche linguistico eliotiano. Last but not least, Gallo recupera a nostro parere – più di qualsiasi altro traduttore precedente – quella che da molti è stata giustamente definita la componente femminile del testo di Eliot. È noto il contributo che la moglie di Eliot diede alla composizione della Waste Land – come risulta dal facsimile della prima stesura – ed è noto che Eliot in passato è stato più volte accusato di aver volutamente occultato il contributo della moglie, oppure addirittura di averne letteralmente rubato alcuni versi: numerosi critici hanno sottolineato il fatto che la Waste Land abbonda di voci femminili, compresa la voce dell’ermafrodito Tiresia, un “vecchio con seni vizzi di donna”. “Ciò che Tiresia vede è la sostanza del poemetto” – dice Eliot nelle sue Note – proprio perché Tiresia, essendo anche donna, ha una sensibilità più completa e più raffinata degli altri uomini. Come è noto, è probabile che Eliot abbia semplicemente trascritto, nei famosi versi “Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me. / Parla con me. Perché non parli mai? Parla. / A cosa stai pensando? Cosa pensi? Cosa? / Non so mai cosa pensi. Pensa.”, le parole rivoltegli dalla moglie durante uno dei loro consueti litigi – e anche questo è un segno della sua genialità – ma soltanto una poetessa e una traduttrice potevano cogliere le sfumature “femminili” nel linguaggio della Waste Land e dunque riportare alla luce quella che è una componente essenziale della texture linguistica del poemetto.
Dunque è importante che Eliot continui a essere tradotto in altre lingue da altri poeti. Non si può semplicemente tradurre il testo di Eliot; bisogna ogni volta, in qualche modo, rispondere a Eliot.