La teoria come pratica liberatoria

Quando ero bambina, certamente non descrivevo i miei processi di pensiero e di critica come “teorizzazione", si può fare teoria senza conoscere un termine, proprio come possiamo vivere e agire la resistenza femminista senza mai usare la parola “femminismo”.

Estratto da Bell Hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, tr. Feminoska, Meltemi, pp. 2546, euro 18.00 stampa


Sono giunta alla teoria attraverso la sofferenza: il dolore dentro di me era così intenso che non potevo più sopportarlo. Sono arrivata alla teoria disperata, bisognosa di comprendere – comprendere cosa stesse accadendo intorno a me e nel mio intimo. Più di ogni altra cosa, desideravo che il dolore sparisse. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione. L’ho scoperta da giovane, ancora una bimba.

In The Significance of Theory Terry Eagleton afferma:
I bambini sono i migliori teorici, dal momento che non sono ancora stati educati ad accettare le pratiche sociali abituali come “naturali”, e quindi insistono nell’interrogare quelle pratiche attraverso domande imbarazzanti, di carattere generale ed essenziale, soppesandole con una strana meraviglia che noi adulti abbiamo da lungo tempo dimenticato. Dal momento che non considerano ancora inevitabili le nostre pratiche sociali, non vedono perché non potremmo fare le cose in modo diverso.

Ogni volta che, durante l’infanzia, ho tentato di convincere le persone intorno a me a cambiare il modo di comportarsi e a pensare al mondo in maniera differente, usando la teoria come mezzo per sfidare lo status quo, sono stata punita. Ricordo di aver cercato, in giovane età, di spiegare a mia mamma perché pensavo fosse altamente inappropriato per mio papà, un uomo che difficilmente mi rivolgeva la parola, avere il diritto di insegnarmi la disciplina punendomi a frustate. Insinuò che avevo perso la testa e avevo bisogno di punizioni più frequenti.

Provate a figurarvi questa giovane coppia nera, che sta lottando prima di tutto per realizzare la norma patriarcale (quella in cui la donna sta a casa, prendendosi cura della famiglia e dei bambini, mentre l’uomo lavora), anche se un’organizzazione del genere a livello economico significa vivere nell’indigenza per tutta la vita. Immaginate come deve essere stato per loro, che lavoravano duramente tutto il giorno lottando per mantenere una famiglia di sette figli, trovarsi di fronte una bambina vispa che li interrogava incessantemente, sfidando l’autorità maschile, ribellandosi contro la norma patriarcale che cercavano tenacemente di istituzionalizzare.

Deve essergli sembrato che un mostro fosse apparso in mezzo a loro nella forma e nel corpo di una bambina: una piccola figura demoniaca che minacciava di sovvertire e minare tutto ciò che stavano cercando di costruire. Non stupisce quindi che la loro risposta sia stata quella di reprimere, contenere, punire. Non c’è da meravigliarsi che la mamma mi dicesse, di tanto in tanto, esasperata e frustrata: “Non so dove ti ho trovato, ma vorrei tanto poterti restituire”.

Immaginate dunque il mio dolore di bambina. Non mi sentivo veramente connessa a quelle persone strambe, a quella famiglia che non solo non comprendeva la mia visione del mondo, semplicemente non voleva ascoltarla. Da bambina, non sapevo da dove venissi. E quando non cercavo disperatamente di appartenere a questa comunità familiare che non sembrava mai accettarmi o volermi, tentavo ostinatamente di scoprire quale fosse la mia appartenenza. Cercavo con tutte le mie forze di tornare a casa.

Quanto invidiavo Dorothy de Il Mago di Oz, che attraversa le sue peggiori paure e incubi solo per scoprire alla fine che “nessun posto è bello come casa mia”. Vivendo l’infanzia senza questo senso di casa, ho trovato un porto franco nella “teoria”, nel dare un senso a ciò che accadeva intorno a me. La teoria è diventata il punto di partenza dal quale poter immaginare futuri possibili, dove la vita poteva essere vissuta in modo diverso. Questa esperienza “vissuta” del pensiero critico, della riflessione e dell’analisi, è il luogo in cui mi sono sforzata di comprendere il dolore e farlo sparire. Fondamentalmente, da questa esperienza ho imparato che la teoria può essere un luogo di guarigione. […]

La teoria non è intrinsecamente curativa, liberatoria o rivoluzionaria, assolve a questa funzione solo quando lo vogliamo, e orientiamo di conseguenza la nostra teoria verso questo scopo. Quando ero bambina, certamente non descrivevo i miei processi di pensiero e di critica come “teorizzazione”. Eppure, come suggerito in Feminist Theory, conoscere un termine non dà vita a un processo o una pratica; ci si può dedicare alla teoria senza al contempo conoscere e possedere un termine, proprio come possiamo vivere e agire la resistenza femminista senza mai usare la parola “femminismo”.

Spesso le persone che impiegano in maniera sciolta certi termini – come “teoria” o “femminismo” – non sono necessariamente attiviste, le cui abitudini di essere e vivere incarnano maggiormente l’azione, la teorizzazione o l’impegno nella lotta femminista. In effetti, l’atto privilegiato di nominare spesso offre a coloro che detengono il potere l’accesso a determinate modalità di comunicazione e consente loro di proiettare un’interpretazione, una definizione e una descrizione del loro lavoro e delle loro azioni, che può essere poco accurata, e oscurare ciò che realmente sta avvenendo. […]

All’interno dei movimenti femministi si è verificato un enorme cambiamento, se si considera che oggi le studenti, in maggior parte donne, che frequentano le lezioni di Women’s Studies e leggono quella che viene loro spacciata per teoria femminista, sentono che ciò che stanno leggendo non ha significato, non è comprensibile, o se anche lo comprendono non si collega in alcun modo alla realtà “vissuta” al di fuori della classe. Come attiviste femministe dovremmo chiederci: a che serve una teoria femminista che assale la fragile psiche di donne che lottano per liberarsi dal giogo opprimente del patriarcato? A cosa serve una teoria femminista che le affossa letteralmente e le vede uscire incerte, con sguardi confusi, dagli ambienti scolastici – sentendosi umiliate, sentendosi come se si trovassero da qualche parte, in un salotto o in una camera da letto, nude, con chi le ha sedotte o le sedurrà, che le costringe per di più a un’interazione umiliante, che le spoglia del loro senso del valore?

Chiaramente, una teoria femminista che è in grado di fare questo può andare bene per legittimare i Women’s Studies e le borse di studio femministe agli occhi del patriarcato dominante, ma mina alla base i movimenti femministi. Forse è l’esistenza di questa teoria femminista ipervisibilizzata che ci spinge a parlare del divario tra teoria e pratica. Perché lo scopo di tale teoria è proprio quello di dividere, separare, escludere, mantenere una distanza. E poiché questa teoria continua a essere utilizzata per mettere a tacere, censurare e svalutare svariate voci teoriche femministe, non possiamo semplicemente ignorarla. Tuttavia, nonostante venga utilizzata come strumento di dominio, può anche portare con sé idee, pensieri e visioni importanti che potrebbero, se usate in modo diverso, svolgere una funzione guaritrice e liberatoria. Al tempo stesso, non possiamo ignorare il pericolo che rappresenta per la lotta femminista, una lotta che deve essere radicata in una teoria che informa, modella e rende possibile la pratica femminista.


Sul libro e l’estratto, pubblicato per gentile concessione dell’editore, leggi l’articolo di Lorenzo Mari.