Ennio Cavalli, abitatore di estese colture poetiche, campi sterminati di parole addette a una lingua necessaria quanto inquieta, ha edificato il proprio Zibaldone. Un libro che sorpassa i consueti termini di raccolta o di altre definizioni più o meno azzeccate. Se ero più alto facevo il poeta: se la corporatura di Ennio avesse raggiunto l’altezza voluta (con la contigua ironia) le conseguenze pop dell’opera dove sarebbero arrivate? Meglio non chiederselo, tanto più che i termini terrestri usuali a proposito della poesia non sono propriamente questi. La trasmigrazione della prosa, e dell’aforisma, verso la poesia fa fuori i confini ordinari, aguzza la propria leggerezza e rende agibile al solito pubblico qualcosa che può identificarsi come un’affabilità pressoché definitiva. Non che Cavalli disconosca questa caratteristica fin dagli esordi, ma qui possono rintracciarsi vari eroi ed eroine di fattura encomiabile: sembra di vederli sulla passerella, o per le vie emiliane brumose e definitive. Teatro di strada, immagini vive d’esistenza, visioni improvvise e filmiche a cui già Fellini si rivolse in passato con parole domestiche e sorridenti. Cavalli dice il vero quando scrive, indirizzando verso il luogo giusto dove guardare affinché non si perdano certe bellezze, certi amori dal sapore di rosa e dal profumo di colori battesimali.
Le pagine pop si riconoscono da ciò che deperisce mentre tutti consumano il proprio interesse, i lunghi elenchi degli articoli si ritrovano nelle poesie strizzanti l’occhio alla prosa mentre questa fa amabilmente le moine. Alle spalle ci sta la colonna sonora dei nostri tempi maledetti, tutto l’armamentario sottolineato dal drumming, e Cavalli se la cava con compassione e civetterie di gran conto. L’intimità si espande come se l’appartamentino del nostro amore si trasformasse nel sommo attico della vetusta città imperiale. All’attuale “Zibaldone” manca soltanto un indice analitico finale, ma il glossario è al suo interno, così come il primigenio aveva sovranamente esposto due secoli fa. Se ero più alto… inoltre funziona al pari di un sismografo analogico, si vede benissimo il pennino saltare sui solchi cartacei mentre un rombo sordo si alza dalle strade di metropoli dibattute, dall’interno di edifici deserti benché pieni di gente fintamente indaffarata. In qualche remoto angolo, lontano dai simulacri, intravediamo (io intravedo) l’amata moglie, poetessa, che abbandonò la nostra realtà. È lei che salva e incoraggia, che incarna e protegge l’epica di un amore eterno. L’épos di questo libro potrebbe salvarci dalle imboscate della vita calante.
Il poeta girovaga nella sua abbazia mentale ma tiene gli occhi bene aperti sulla realtà, difficile intravvedere qualcuno che la sappia più lunga fra quanti hanno ancora la forza di riportare un’idea di scrittura, di mondo, o di ricchezza critica. La “vera” storia manca, le schiere sfoggiano materie aliene, digitali, vagano investite del ruolo di attrici statiche. E molti sono i morti sul campo. Dal libro emergono antiche attualità e temperanze inestinguibili, si misurano ancora gli effetti che furono, si cerca di attualizzare il corretto sesto, extrasistole permettendo. La coscienza della macchina da scrivere è come un ricostituente iniettato in vena, leggendo si respira un’aria di bonifica, si viene a sapere che oltre alle guide esotiche e ai poderi degli uggiolanti la forza dello scrivere ancora esiste. Se ne può fare un florilegio, attraversarne la luminosità prendendosi in carico anche tutti i rischi. La fluvialità, l’hanno insegnato numerosi romanzieri e poeti americani, spesso rende giustizia allo sguardo e alla carica visionaria. Restiamo fiduciosi, questo libro è la quinta dimensione esemplificata ai dummies della scrittura, e (per estensione) della realtà. Fiduciosi verso il matrimonio prossimo venturo fra prosa e poesia, di cui qualcuno in passato tessé le lodi tirandosi dietro uno sciame di insulti. Non ultima resta l’osmosi fra poesia e diletto, appunti sulla natura, vocativi e ardori sopiti, taccuini d’incontri, in una continua ricapitolazione del mondo. La dedica è ai solitari e a tempi più propizi. Gli attuali si adattino, per cortesia.