Da un oriente il cui sangue si è scisso / per darci Damasco / Per questo riduciamo il frumento e la saggezza / a un paio di righe / e riportiamo indietro la creazione / perché non si addormenti [1]
Una delle caratteristiche peggiori nelle analisi geopolitiche contemporanee è la tendenza a privare della loro recente storia culturale, artistica, letteraria i Paesi nei quali scoppiano conflitti sanguinosi e duraturi.
Le guerre declinate secondo l’esegesi del tribalismo e del confessionalismo possono ipotecare il futuro solo se vendono il passato al mercato nero. Con buona pace dell’opinione pubblica internazionale, che educata agli stereotipi colonialisti può comodamente ripiegare sulla pilatesca alzata di mani del “si uccidano pure tra loro”.
Il mancato riconoscimento dell’esistenza di una società civile (presente e passata) è il tratto che più di ogni altro condanna nazioni come la Siria all’assordante solitudine della distanza – premessa di ogni licenza di sterminio.
Qualsivoglia esperienza di resistenza e di opposizione interna, anche tra le macerie di una guerra che sta entrando nel suo decimo anno, viene fatalmente collocata nel novero delle “eccezioni storiche”: secondo questo mantra, i popoli inadatti alla democrazia partoriscono sempre e solo esperimenti partecipativi circoscritti, fragili, ludici, irrisori rispetto alla gloriosa matrice occidentale.
Forse proprio alla luce di queste ragioni, Hala Kodmani sceglie di fingere un surreale dialogo differito via email con il padre – scomparso due anni prima. E tale escamotage, solitamente abusato nelle litanie affettive familiari, invece di apparirci banale, si rivela perfettamente funzionale alla rottura dell’incantesimo orientalista cui accennavo sopra.
Il padre di Hala, Nazim, così come i nonni paterni e materni appartengono infatti ad una stirpe alto borghese di damasceni da sempre intellettualmente vicina alle posizioni del nazionalismo arabo.
Costantemente malvista in patria, la famiglia Kodmani è uno spaccato in fieri di quella francisation che ha pervaso ed affascinato praticamente tutte le figure protagoniste della decolonizzazione dei Paesi arabi e africani tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.
Figure che nella Francia di De Gaulle avevano studiato e intessuto relazioni, al fine di formare poi in patria quelle élite la cui sorte sciagurata fu di essere brutalmente decapitate non appena le lotte di liberazione lasciarono il posto ai peggiori regimi militari.
Iniziato per caso nel novembre 2010, il fittizio carteggio virtuale tra la parigina Hala e lo scomparso Nazim, prende le mosse dal tramonto della Francia felix vissuta dal padre dell’autrice.
La presidenza di Nicolas Sarkozy, incapace di arginare la crescita del Front National dei Le Pen, sta irrigidendo la sua politica nazionalista, tentando di assimilare gli stranieri nel nome dei valeurs de la Republique.
La crisi identitaria da esponente della “seconda generazione” di Hala trova quindi nel padre un efficace contraltare di sublimazione ironica: “stai dicendo che quel figlio di immigrati di Sarkozy si comporta come i classici integrati che hanno avuto successo e non accettano che chi arriva dopo voglia fare quello che hanno fatto loro?”
Chi legge questi scambi di fine 2010 alla luce dell’imminente deflagrazione delle “primavere arabe” (ma chiamiamole “rivoluzioni” una volta per tutte) sa che Hala sta preparando il climax dell’empatia, tipico della narrativa delle diaspore. Ben presto le misere questioni interne del cortiletto transalpino diverranno per lei cosa futile: in Tunisia l’anno 2011 si apre con lo scoppio della Rivoluzione dei Gelsomini. I parvenu arabi iniziano la conquista dei palcoscenici internazionali.
La radicalità e la rapidità delle insurrezioni, che vedono l’Egitto e la Libia seguire immediatamente la Tunisia, muta nettamente il profilo della figura paterna ed il dialogo filiale con essa. Nazim acquisisce un rilevante spessore storico e le sue memorie abbandonano definitivamente l’iniziale aspetto folkloristico-macchiettistico per diventare attenta analisi politica su quanto avvenuto nei decenni passati, lungo le rotte della sua vita diplomatica tra Maghreb e Mashriq.
È in questa fase del dialogo che Hala ci impartisce la lezione più importante: non vi è un mero parallelismo ideologico, nè un gioco di specchi tra l’antica decolonizzazione da un lato e le attuali Primavere/Rivoluzioni dall’altro.
C’è invece un conflitto forte, uno scontro generazionale palpabile, tra chi come Nazim intese in buona fede il panarabismo, declinandolo in chiave leaderista (nel nome di Nasser, Siria ed Egitto furono addirittura unite in una sola Repubblica, per alcuni anni), e quanti per voce di Hala tentano incessantemente di emanciparsi, ai giorni nostri, da ogni sterile rappresentanza autoritaria per organizzarsi in rete, sfuggendo alla strutturazione in élite o in Partiti, in nome dell’agorà poliedrica delle piazze.
“Vinceremo perché non abbiamo un programma, perché non sappiamo niente di politica, né di equilibri, né di ignobili negoziazioni” – scrive Hala a suo padre, citando l’attivista egiziano Wael Ghoneim.
Ma quando la Libia trasforma la sua rivolta in una guerra (non “civile”, ma per procura) e proprio la Francia di Sarkozy decide di approfittarne ipocritamente, è il defunto Nazim a prendersi la rivincita, anticipando in modo sinistro quanto sta per accadere in Siria: “i libici […] non hanno soppesato i rapporti di forza, non hanno sufficientemente sondato quanto appoggio potessero aspettarsi dall’esercito. Quando ci si getta in una sfida del genere, bisogna esserne all’altezza”.
La Rivoluzione siriana, scoppiata nel marzo 2011, acuisce se possibile questa forte differenza di prospettiva generazionale.
Nazim fa trasparire sottotraccia un timido senso di colpa per aver condiviso con i suoi compagni di lotta di un tempo il battesimo del feroce partito Ba’th – al potere dal 1963 e dal 1970 saldamente nelle mani dell’odiata famiglia Assad, cui non viene risparmiata alcuna critica, nè alcun epiteto.
Per Hala, invece, l’insurrezione in patria segna il momento decisivo dell’uscita dal dialogo virtuale e dalla pura narrazione: diventa attivista a Parigi, organizza sit-in, crea gruppi di appoggio per quei Comitati di Coordinamento Locale[2] che sovrintendo alle proteste tra il sud e il nord della Siria; mentre la sorella Bassma diventa portavoce del Consiglio Nazionale Siriano – l’organismo con sede ad Istanbul che avrebbe dovuto guidare la transizione democratica successiva alla caduta del regime e che invece rimarrà ostaggio di tutte le divisioni ed i personalismi della diaspora.
Hala si reca addirittura a Damasco. Racconta al padre di una capitale paranoica, ancora estranea (come Aleppo) alle manifestazioni che si moltiplicano nelle zone periferiche e nei centri urbani medi (Homs, Hama ecc.), eppure già terrorizzata dalle potenziali reazioni del regime.
Ma non è solo paura.
In Siria – le spiega Nazim – la borghesia affaristica, imprenditoriale e commerciale deve tutto ai legami con il clan degli Assad: a differenza di Tunisia ed Egitto, poi, non vi sono nemmeno formazioni islamiche moderate, capaci di garantire una continuità politica al business. Perché sono state interamente cancellate, coi loro esponenti, già negli anni Ottanta.
Emerge chiaramente fin dai primi mesi, nelle parole di padre e figlia, il machiavellismo cinico della “diversità” siriana: anche se la lista degli uccisi, degli scomparsi e dei torturati aumenta esponenzialmente – ben oltre quanto avvenuto nelle precedenti Rivoluzioni di gennaio e febbraio – non vi è alcuna defezione interna nel blocco politico-militare su cui poggia il regime. Anzi, la sempre più rodata dezinformacija nazionale riesce in pochissimo tempo a dividere i protagonisti delle rivolte (che cadono nel tranello etnico-confessionale) e a persuadere gran parte della comunità internazionale che la repressione in atto sia una mera questione di ordine pubblico.
“Il mondo si è bevuto la propaganda del regime che pretende di essere il protettore delle minoranze […] dobbiamo sempre rassicurare ora questi ora quelli e difenderci dall’accusa di non occuparci delle loro rivendicazioni” – ammette sconsolata Hala al padre, mentre il gioco di scacchi di Bašar al Assad prosegue vittorioso ed i politici francesi di ogni schieramento fanno la fila per andare a vedere gli spettacoli “pro Siria” nei sopraffini teatri parigini. Senza per questo muovere un solo dito per intervenire in Siria come avvenuto in Libia.
Il lessico familiare dei Kodmani si conclude nel febbraio del 2012.
Aggiungerei “purtroppo” se non pensassi che l’analisi epistolare dei successivi otto anni e mezzo avrebbe richiesto ben altri strumenti – umani ed editoriali. La visione complessiva sulla tragedia siriana deve ancora attendere, in termini di anni e di morti.
La prima votazione ONU su un possibile intervento internazionale in Siria (5 febbraio 2012) trova subito pronti il veto russo e quello cinese. Nazim, da ex diplomatico esperto, comprende il senso profondo della decisione: la Siria è abbandonata a se stessa. Chiede quindi alla figlia di interrompere il dialogo, in nome del riposo religioso che si suole attribuire ai defunti, ma non senza risparmiare l’ultimo colpo di coda del suo “french humour”
Grazie a te e alle prodezze della tecnologia, sono un morto meno stupido
[1] Faraj Bayrakdar, Poesia del dolore
[2] Sulle caratteristiche peculiari di questi straordinari elementi di autogestione della rivolta rimando a Lorenzo Declich, Siria, la rivoluzione rimossa, Alegre Edizioni, 2017.
Ancor oggi il maggior centro di documentazione online delle violenze perpetrate in Siria è diretta espressione del lavoro di quei Comitati e delle loro ramificazioni estere (https://vdc-sy.net/en/)